Arshake ha oggi il piacere di pubblicare l’ultima di quattro parti di un’intervista tra Victoria Vesna e la storica dell’arte Dobrila Denegri, attualmente direttrice del Centro d’arte di Torun. L’intervista ha avuto luogo nel corso del tempo (2005-2014) in diverse occasioni e località del mondo, tra Roma, Los Angeles e Torun. In questo dialogo, Vesna ripercorre i suoi progetti pionieristici, realizzati in un momento storico in cui parlare di «estetiche del database/ database aesthetics» era piuttosto visionario, e il ruolo delle nano-tecnologie non era tanto conosciuto e riconosciuto quanto lo è oggi, né tantomeno assimilato in ambito artistico. Nell’ultima parte dell’intervista Vesna racconterà di alcuni dei suoi progetti più recenti, come Blue Morph e Hoz Zodiac. La sua ricerca prosegue l’analisi dell’organizzazione strutturale dei dati, per come questi strutturano il linguaggio, per come indirizzano i processi di comunicazione. Individua elementi morfologici comuni a specie diverse mentre osserva e studia i processi di metamorfosi. Ancora una volta, arte e scienza intrecciano i loro percorsi con codici e costumi culturali. Vensa ripercorre la genesi della collaborazione storica con il nano-scienziato Jim Gimzewki, iniziata nel 2001 – e tutt’oggi in corso, e racconta di sinergie più recenti con quella instaurata con il neuro scienziato Siddhart Ramakrishnan e con il biologo evoluzionista Charles Taylor. Potete leggere la prima parte su Arshake del 3 Aprile 2014 e la seconda su Arshake del 10 aprile 2014 e la terza su Arshake del 24 aprile 2014.
Dobrila Denegri: Verso quali prospettive ti hanno indirizzato tutti questi progetti? Credi di poter dire che nella tua opera vi sia un tema centrale che hai sviluppato e che vuoi continuare ad approfondire?
Victoria Vesna: Vent’anni fa, con Bodies INC, ho sperimentato per la prima volta l’impatto del pubblico creando un lavoro che li invitasse al suo interno. L’interazione ha contribuito a dare vita e forma alle idee, ad approfondire e arricchire la mia opera e ciò ha invertito la direzione del mio processo creativo. Oggi considero l’operazione artistica come un corridore di lunga distanza, che si evolve con il tempo e costruisce narrazioni in dialogo con il pubblico. Ad esempio, una delle ultime versioni di Quantum Tunnel invitava i visitatori a sdraiarsi a terra affinché sentissero la leggerezza e infinitezza dei propri corpi. Ho scoperto una dimensione completamente nuova dell’opera di cui terrò conto nella prossima installazione, ovunque si terrà nel mondo. Ogni contesto culturale scatena una reazione diversa che aggiunge valore all’opera e mi permette di condurla ad un livello superiore.
Inoltre, ho iniziato a pensare molti dei miei lavori come ad impegni di lunga durata che proseguono per tutta la vita per acquisire, poi, una vita propria con le estensioni nel web. Un’opera in particolare che ha iniziato a predispormi verso questa direzione è Water Bowls: luna-suono-goccia-olio. Questa installazione ha una componente online e lavorare a quest’opera mi ha reso consapevole della serietà delle questioni che il tema dell’acqua solleva. Mi sono sentita, come artista, come una goccia nell’acqua e ho iniziato a coinvolgere altri in questo ambito attraverso una componente online e ho perfino curato una mostra nel tuo museo per la prima volta nella mia vita! Questa connessione fisica/virtuale il collante di tutto quello che creo attualmente, al centro l’audience come performer.
«Lo spettatore come parte attiva dell’opera» è senza dubbio il leitmotiv di tutte le tue opere sin dai tempi di Bodies INC., ma nelle tue produzioni più recenti ricorre di frequente anche un nuovo elemento che trovo particolarmente interessante. Sembra, infatti, che tu ti stia addentrando sempre più nel regno della natura, lasciandoti ispirare da elementi provenienti dal mondo della biologia o della zoologia. Ricordo una delle tue prime produzioni quando, agli inizi degli anni ‘90, da New York ti sei trasferita in California: Another Day in Paradise, un’installazione sul tema della sorveglianza ma anche sulla «artificialità» della natura. L’installazione era composta da tre palme che, sebbene all’apparenza sembrassero perfettamente naturali, all’interno in realtà erano state riempite di silicone, proprio come molte palme nello spazio pubblico. Con una prospettiva completamente nuova, sei tornata a lavorare con il tema della natura e degli organismi viventi. Il progetto Blue Morph sembra rappresentare una sorta di arco che collega le opere realizzate per l’esposizione «Nano» e le tue produzioni più recenti. Puoi raccontarmi come è iniziato tutto? Come hai iniziato a lavorare con le farfalle?
A dire il vero non ho mai creduto che un giorno avrei lavorato con le farfalle, e lo stesso vale per Jim Gimzewski, con cui il progetto è stato sviluppato. È accaduto quasi per caso! Tuttavia l’idea deriva da una precedente ricerca condotta da Jim Gimzewski, che ha destato particolare interesse in ambito scientifico ed ha inoltre dato vita al nostro progetto collaborativo sul suono delle cellule viventi, Cell Ghosts. Jim stava registrando il suono delle cellule viventi, ma nonostante egli fosse estremamente entusiasta del suo lavoro, i suoi grafici ai miei occhi risultavano del tutto privi di interesse. Ma quando questi dati sono stati tradotti in suono, ne sono rimasta affascinata anch’io.
Il progetto si è esteso riscuotendo grande risonanza anche sui giornali, come il «LA Times».Poi un giorno Jim ha ricevuto una telefonata da una donna che gli chiese se avesse mai registrato il suono di una crisalide nel momento della sua metamorfosi in farfalla. Ovviamente no, ma dapprima per pura cortesia, poi per curiosità, Jim ha iniziato a lavorare saltuariamente con i bruchi che questa donna gli inviava. Più lavorava, più il progetto diventava impegnativo in quanto registrare i suoni o le vibrazioni non era una cosa facile, e solo quando ha capito che avrebbe dovuto coprire la crisalide con una piccola lastra di vetro e colpirla con il laser, i risultati hanno cominciato a farsi vedere. Ed è stato sbalorditivo per entrambi: suoni e immagini incredibili. I suoni del processo di metamorfosi sono così ancestrali, organici e archetipici. Ho scritto numerosi saggi a riguardo. Le immagini delle ali di Blue Morph erano altrettanto stupende, perché non vi è alcun pigmento, solo nano-strutture che ci permettono di percepire questo meraviglioso colore blu. Questo è stato il punto d’inizio del progetto Blue Morph che si è sviluppato in modo sorprendente. È come se l’artista e lo scienziato siano lì per rivelare ciò che vuole venire alla luce per poi rivestirlo della nostra esperienza. Quest’opera unisce l’esperienza e le riflessioni sull’impatto della scienza futura con le mie precedenti produzioni performative e interattive. L’opera ha dato vita ad una dimensione ritualistica totalmente nuova legata ai cambiamenti radicali che stiamo vivendo in tutto il mondo, riflettendo sulle continue metamorfosi a cui assistiamo in natura e ci proietta direttamente in quella vibrazione. Il vero ibrido tra arte e scienza è la magia e il mio obiettivo è manifestarla e contribuire ad inaugurare un secolo nuovo, che sarà radicalmente diverso dall’era industriale che ha ancora una forte presa su di noi.
Collabori solo con Jim Gimzewski o vi sono altri scienziati con cui stai realizzando nuovi progetti artistici?
Rcentemente ho collaborato con una serie di nano-scienziati – Mark Cohen per un pezzo performativo, Brain Storming che ho poi messo in scena a Marisglia con Constance Hammond. Questo lavoro è stato stimolato da David Familian, artista e curatore della Beall Gallery of Technology and Art dove ha illustrato la collaborazione decennale con Jim. In questo momento sto lavorando a due diversi progetti, uno con uno neuro-scienziato – Siddharth Ramakrishnan, ed un altro con un biologo evoluzionista Charles Taylor ed il suo team. Con Siddharth siamo impegnati da tempo nel progetto Hox Zodiac, già presentata in diverse occasioni ad Hong Kong e Taiwan. Tutto è cominciato quando sono stata invitata per una mostra in Cina ed ho contattato Siddharth per una collaborazione. Era interessato a creare qualcosa con il gene «Hox», un gene presente in tutti gli esseri viventi. Non è incredibile: uomini, elefanti, lumache, e il resto degli esseri viventi hanno tutti un gene in comune! Non è stato facile trovare un modo per traslare in immagine tutti i potenziali significati di qualcosa di così immenso e universale, ma all’interno del contesto cinese il progetto è riuscito a prendere il via in modo naturale. La cultura cinese è profondamente legata allo zodiaco e ai relativi 12 animali/segni; direi molto più profondamente di quanto noi occidentali siamo legati all’astrologia. Il loro oroscopo è ricco di complesse connotazioni simboliche e, dal punto di vista culturale, ciò ovviamente è stato molto interessante per il mio lavoro. Tuttavia ciò che ha avuto una rilevanza ancora maggiore è stato il fatto che metà di questi 12 animali vengono impiegati nei laboratori scientifici per condurre esperimenti. L’opera, quindi, intende affrontare anche questi argomenti: quali benefici e quali danni le nostre ricerche stanno apportando al mondo animale? Anche Hox Zodiac è una produzione particolarmente interattiva e coinvolgente, in cui lo spettatore è invitato a immaginare l’animale. In Cina l’idea ha avuto un grande successo: il visitatore diventava tutt’uno con la scena artistica, era chiamato a fruire dell’opera e a farla «propria». Arriva un momento in cui per il pubblico la questione di chi ci sia dietro all’opera, se un artista o uno scienziato, non ha più nessuna importanza. Come artista, trovo l’immersione totale del pubblico molto affascinante; in quei momenti, il valore dell’opera acquista tanto più significato quanto più la mia presenza sparisce nell’anonimato.
Hox Zodiac è un’opera in fieri, una ricerca in cui mi sono gettata a capofitto da oltre un anno, insieme al team di biologi evoluzionisti guidato da Charles Taylor. Lavorano al progetto di mappatura dei sistemi comunicativi degli uccelli. La comunicazione tra gli uccelli, il loro linguaggio, sono davvero qualcosa di affascinante. Nel team ci sono anche dei linguisti che lavorano a stretto contatto con i biologi per studiare le relazioni tra le strutture linguistiche, prendendo come riferimento Chomsky ed altri studiosi. Devo ancora trovare un modo per trasporre e trasformare tutte queste incredibili informazioni in un’opera d’arte, ma oggi, dopo tutte queste indagini, le numerose registrazioni e gli esperimenti a cui ho presenziato e che ho condotto insieme a loro, sento che la mia percezione sensoriale si è incredibilmente affinata.
Nonostante il net-space e l’interattività siano parte integrante del tuo lavoro, hai sempre posto grande enfasi sull’esperienza fisica e sulla percezione sensoriale. Octopus Mandala segue molto questa linea. Come ha preso vita questo progetto e hai intenzione di svilupparlo ancora?
Sono stata invitata dal curatore Mark Paley come artista principale dell’edizione 2013 di «Glow», un evento organizzato a Santa Monica ogni due anni. Si tratta di un’enorme manifestazione ispirata alla Nuit Blanche parigina e l’ultima edizione si è tenuta il 28 settembre ed è durata 8 ore, dal tramonto all’alba, in molti luoghi scenografici. Ero completamente rapita della location che, per diversi motivi di sicurezza, non era mai stata utilizzata prima, ma questa volta avevamo avuto il permesso e quando ho chiesto al curatore se avrei potuto realizzare qualcosa con l’enorme Pacific Wheel, mi ha risposto, «certo, è tua». In quel momento mi è salita una gran paura, chiedendomi in quale guaio mi fossi cacciata. Sai, la Pacific Wheel è una sorta di icona di Los Angeles, è ovunque, appare in moltissimi film, è una grande attrazione e senza dubbio anche il luogo più complicato in cui realizzare un’opera d’arte. Ma ne ero attratta – forse parchè è anche dove i monaci Buddhisti hanno disperso la sabbia della mia opera Nano-mandala al termine della mostra ospitata dal LACMA, o forse perché è un oggetto che vedo tutti i giorni, mentre dalla UCLA guido verso casa a Topanga, è qualcosa che ho sempre associato all’immagine del mandala, il cerchio della vita, una ruota buddista che ha la stessa struttura divisa in 8 sezioni, che inoltre si ritrova spesso in natura.
Fino a quel momento erano solo pensieri effimeri che fluttuavano nella mia mente e che poi all’improvviso si sono concretizzati quando ho iniziato a lavorare al progetto invitando a bordo molti miei collaboratori e amici del mondo dell’arte. All’inizio è stato davvero difficile e impegnativo, ma ha iniziato a prendere vita quando ho notato che l’entrata al molo di Santa Monica ha la forma di un polpo. In quell’istante tutto ha trovato un senso: il polpo, che possiede 8 tentacoli, è un mandala biologico. Questa idea mi ha spinto ad intraprendere un viaggio esplorativo attraverso le sue diverse connotazioni simboliche attribuite dalle diverse culture. Il polpo è inoltre un animale che riveste un grande fascino per i biologi evoluzionisti, i suoi occhi infatti mostrano una forte somiglianza con quelli dell’uomo, e dal punto di vista evolutivo è apparso sulla terra milioni di anni prima di noi. È inoltre un animale particolarmente interessante per i neuroscienziati, non solo per la sua intelligenza, ma anche per la sua struttura: è infatti dotato di un cervello estremamente sviluppato e quando questo trasmette un comando, ogni tentacolo è in grado di eseguire un’azione in modo indipendente.
Per me, dunque, è stato un grande stimolo che mi ha spinto a riflettere sul concetto di embodied intelligence, ovvero di intelligenza integrata, che ritengo sia il contrario dell’idea secondo cui l’intelligenza risiede esclusivamente nel cervello. In termini metaforici ciò è legato all’idea di intelligenza collettiva. In questo modo il tema della Pacific Wheel, che è solo un oggetto meccanico, si è fuso con l’elemento biologico, diventando quindi biotech; ed è proprio questa la strada su cui tutti siamo diretti: verso la fusione tra biologia e tecnologia. Dal punto di vista concettuale, ciò ha rivestito un’enorme rilevanza, tuttavia dovevo ancora trovare un modo per riuscire a creare un’opera da tutto questo. Ho iniziato a lavorare insieme ad un mio studente su un progetto per la creazione di giochi di luce – sotto forma di polpo – impiegando 386.000 luci LED posizionate sulla Pacific Wheel. Abbiamo fatto in modo che cambiasse colore ogni ora durante le 8 ore di durata del festival «Glow». Tuttavia l’aspetto più importante per me non era la struttura della Ruota, ovvero la macchina, bensì le persone che vi salgono. Tutti parlano sempre della ruota e nessuno delle persone – e volevo partire proprio da questo: porre l’accento sulle persone. Sulla base della mia esperienza con Blue Morph ho progettato delle «corone a forma di polpo», che i visitatori avrebbero potuto indossare per giocare e interagire. Allo scopo di testarle ho organizzato un evento a Marsiglia, sfruttando la Ruota panoramica che c’è lì, invitando molti dei miei amici e collaboratori della residenza IMERA. Si è rivelato un grande successo così ho deciso di farlo funzionare nel network in grande scala coinvolgendo una serie di collaboratori e amici del mondo dell’arte e della scienza.
Dopo Marsiglia, abbiamo organizzato altri eventi a New York, a Coney Island insieme all’artista Ardele Lister; dopodiché ci siamo spostati a Seattle per un evento organizzato da Siddharth e i suoi studenti, poi è stata la volta di Sidney in collaborazione con Lea Kannar, e in seguito Vienna con Gil Kuno che ha realizzato una solo performance. Prima della manifestazione di Santa Monica avevamo già organizzato una serie di eventi collettivi in varie parti del mondo, aggiungendo al progetto l’elemento fondamentale per il mio lavoro: il coinvolgimento delle persone, sia a livello fisico che attraverso l’interazione digitale. Questo pezzo è stato realizzato a Chicago poco dopo il «Glow» Festival il che ha significato chiudere il cerchio dato che proprio qui George Ferris aveva installato la prima ruota per il pubblico in occasione della World Fair nel 1893. A quell’epoca era veramente un’esperienza incredibile per le persone; il movimento, le macchine erano cose nuove nella sfera sociale. Ora siamo così abituati alle macchine che sono destinate ai giochi dei bambini. Trovare un modo per rimettere in gioco il ‘ready made’, re-immaginare e ricostruire la percezione della ruota ha richiesto diverso tempo. Per me questa è stata una follia. Ho lavorato ininterrottamente con il mio team per otto mesi ad un progetto che è durato soltanto otto ore.
Adesso, quando mi guardo indietro, vedo che dai primi lavori, quali Bodies Inc. o N0 Time, ad oggi, si è ripetuto sempre lo stesso tipo di tentativo in cui cerco in molti e svariati modi di fare la stessa cosa: vivere un’esperienza nello spazio fisico che si estenda oltre, fino alla dimensione interattiva – e la dimensione interattiva non è una mera idea virtuale bensì è qualcosa di molto vicino allo spazio fisico. Quindi come artista il mio lavoro è «progettare» l’ambientazione, sviluppare il concetto, il contesto e l’estetica dell’opera, ma poi questa diventa qualcosa che deve essere vissuta e condivisa tra gli individui.
Quando il pubblico «subentra», io in quanto artista posso fare un passo indietro, perché non si tratta di me – si tratta di creare un’esperienza – ed è questa la vera essenza dell’arte. Come artista ho l’opportunità di usare delle tecniche, dei concetti e l’estetica per creare qualcosa che aiuti ad espandere i sensi e la percezione della realtà nel modo in cui io credo le persone dovrebbero esperirla, affinché la loro vita di tutti i giorni venga percepita in una dimensione più profonda. Quando ciò si realizza, mi sento felice e allora so che tutto il lavoro svolto ne è valso davvero lo sforzo.
Immagini
(cover) Victoria Vesna in collaboration with Jim Gimzewki, Blue Morph, 2007-present, wing detail (1) Victoria Vesna WaterBowls, 2006-present (2) Victoria Vesna in collaboration with Jim Gimzewki, Cell Ghosts (3) Victoria Vesna, in collaboration with Jim Gimzewki, Blue Morph, 2007 – present, installation view at the Beall Center for Art + Technology, UC Irvine in 2012 (4) Victoria Vesna in collaboration with Jim Gimzewki, Blue Morph, head (5) Victoria Vesna, in collaboration with Siddharth Ramakrishnan and Charles Taylor, Hox Zodiax, 2009-present (6-7) Victoria Vesna, Octopus Mandala, 2013, project conceptualized for the Pacific Wheel premiering at «Glow» Festival (2013), Santa Monica.