In conversazione con Dobrila Denegri, Victoria Vesna, artista pioniera nell’aver esplorato le dimensioni invisibili dell’universo, racconta del suo ultimo lavoro. In una precedente intervista, pubblicata su Arshake nel 2014 in quattro appuntamenti, Vesna aveva attraversato la sua ricerca, dalla database aesthetics alla biologia molecolare, spinta da un forte interesse per la relazione dell’uomo con l’universo in ogni forma e scala (Arshake, 3 Aprile 2014- 10 aprile – 24 aprile 2014. 1 maggio, 2014). Oggi, critica e artista riprendono la conversazione per affrontare il suo ultimo lavoro: [Alien] Star Dust, progetto di ricerca sulle meteoriti spaziali che a milioni, invisibili, cadono dal cielo e si mescolano alle polveri terrestri.
DD: «Ogni essere vivente contiene atomi di idrogeno e ogni elemento materiale che nasce nelle stesse dal processo di fusione. Siamo creati a partire dalla polvere di stelle con la fusione nucleare, così come i nostri tanti fratelli e sorelle: animali, piante, insetti, plancton, batteri e virus. Tutti, dal più piccolo al più grande, funzioniamo negli stessi campi vibrazionali, come creazioni della natura e della nanotecnologia». Secondo questa descrizione del tuo ultimo progetto, [Alien] Star Dust, siamo tutti creati a partire dalla polvere di stelle. Che cosa significa esattamente? E quali obiettivi di ricerca ti sei posta attraverso quest’opera?
VV: L’idea è che ogni essere vivente sia composto di una combinazione di diversi elementi, e questo vale anche per noi. A partire dal Big Bang: idrogeno, elio, fosforo, carbonio e ossigeno provengono tutti dall’esplosione di una stella gigantesca. Ho iniziato questa ricerca per saperne di più, concentrandomi soprattutto sulle micrometeoriti che si trovano sulla Terra. Osservare questi agglomerati di polvere è uno dei modi per comprendere come sia iniziata la vita sul nostro pianeta e come tutto sia interconnesso. Senza carbonio non c’è vita: è il componente principale di ogni cosa, dal DNA al tessuto muscolare, praticamente ad ogni parte del nostro corpo. Questo mi ha fatto venire in mente una canzone di Joni Mitchell del 1969, che dice: «We are Star Dust… Billion Year Old Carbon (…) And we’ve got to get ourselves… Back to the Garden…» Questi versi sono diventati il tema centrale di Woodstock nel 1969, lo stesso anno in cui l’uomo è andato sulla Luna ed è stata realizzata la prima rete Internet (ARPANET); l’anno dell’ «estate dell’amore», del boom culturale e delle enormi proteste contro la guerra in Vietnam. L’anno successivo, nel 1970, è stata indetta la Giornata della Terra e ha iniziato a emergere una certa consapevolezza culturale. Ho visto tutto questo come una grande metafora.
Riflettendo su questo, sono rimasta affascinata dal fatto che ogni giorno centinaia di tonnellate di polvere di stelle cadono sulla Terra, senza che nessuno se ne accorga. L’interessante è anche il fatto che sia stato un musicista jazz norvegese, Jon Larsen, a far conoscere al pubblico queste meravigliose micrometeoriti. Circa dieci anni fa, Larsen si è chiesto perché gli scienziati vadano in cerca della polvere cosmica soltanto nelle regioni più remote. Se questa polvere cade sulla Terra, non potremmo trovarne un po’ sui tetti degli edifici? Ad oggi, ha raccolto e documentato migliaia di micrometeoriti e ha ricevuto il riconoscimento degli scienziati. Possiamo, infatti, trovare la polvere di stelle ovunque attorno a noi. Mescolate alle altre polveri e all’inquinamento, vi sono anche microparticelle provenienti dall’esterno del nostro sistema solare. Ho chiamato l’opera [Alien] Star Dust perché volevo anche mettere in discussione il concetto di «alieno», specialmente ora che ovunque vengono erette nuove frontiere. Chi o che cosa ci è alieno? A che cosa pensiamo quando vediamo della polvere «sconosciuta»?
La mostra al Museo di storia naturale di Vienna ha aperto esattamente un giorno prima che in Austria fosse indetto il lockdown, il 10 marzo. Mentre vengono eretti di nuovo muri, barriere e frontiere, racconti di una materia che non conosce confini e si diffonde dappertutto… In che modo l’epidemia, che è diventata globale molto rapidamente, plasma l’interpretazione del tuo lavoro?
È un po’ inquietante riflettere su come avessi sentore di tutto questo… ma tornando un attimo indietro, vorrei precisare che il progetto è stato avviato su invito di Christian Koeberl, geologo e direttore del Museo di storia naturale di Vienna, che mi ha proposto una sfida: creare un’opera per la collezione di meteoriti del museo. Abbiamo iniziato a parlarne tre anni fa. All’epoca non sapevo esattamente cosa avrei fatto, ma ero sicuramente affascinata dalla collezione di meteoriti del museo, una delle più vaste al mondo. Si tratta di rocce indubbiamente bellissime, ma che fuori contesto perdono un po’ di significato. Ho impiegato quindi un po’ di tempo prima di avere l’idea giusta. Alla fine ho chiesto al dott. Koeberl e al curatore di meteoriti, il dott. Ludovic Ferrièr, di scegliere sette meteoriti, ognuna da un continente diverso e con una storia interessante. Ce n’è una dall’Africa che è caduta a Tissint (Marocco), una piuttosto recente (2013) dall’Europa che ha avuto un impatto spettacolare a Chelabynsk (Russia); per l’Asia abbiamo una meteorite da Fukang (Cina), per l’Australia una da Henbury, poi una dal Canyon Diablo (Nord America), da Campo del Cielo in Argentina (Sud America) e una trovata nella zona delle Alan Hills in Antartide. Così ho avuto l’incredibile opportunità di lavorare su queste magnifiche rocce, sulle quali il curatore, il dott. Ferrièr, mi ha spiegato molte cose. Mi ha anche permesso di fotografarle da vicino. Tutto ciò mi ha fatto pensare che dovevo animare le meteoriti, perché solo loro possono aiutarci ad abbandonare la nostra visione terra-centrica e iniziare a pensare all’Universo.
Per tornare alla tua domanda sulle frontiere: volevo mettere in chiaro che la polvere non conosce confini. All’inizio ho raccolto della polvere, cercando meteoriti e confrontando l’inquinamento in diverse zone. Ho anche fatto una breve esperienza all’École Polytechnique di Parigi, presso l’Osservatorio SIRTA, dove ho imparato tanto sulle polveri (inquinanti). È stato incredibilmente interessante apprendere come vengono tracciate e analizzate le polveri “sconosciute” in relazione al cambiamento climatico, perché mi ha fornito una visione d’insieme su come l’inquinamento si sposta.
Il mio lavoro è generalmente site-specific, perciò durante l’installazione dell’opera ho avuto l’opportunità di salire sul tetto del museo col dott. Ludovic per raccogliere la polvere da lì. Poi ci siamo recati nel laboratorio del museo per analizzarla al microscopio e abbiamo scoperto qualcosa di stupefacente: nella miscela di polveri, insieme a varie particelle inquinanti, microplastiche e micro-fili, abbiamo trovato della polvere sahariana. Quella polvere adesso fa parte dell’installazione, messa sotto microscopio perché i visitatori possano vedere con i loro occhi e metterla in collegamento con le animazioni della mostra. Sul tetto del museo è presente anche un’antenna che funge da ricevitore dei segnali radio riflessi dalle scie di plasma delle meteore dallo spazio. Io e i miei collaboratori abbiamo creato tracce audio mixando i suoni provenienti dallo spazio con rumori prodotti dall’uomo e melodie di diverse culture.
Già a gennaio ero più che consapevole di cosa stava succedendo in Cina con il coronavirus, perché ho familiari e amici nel Paese. Durante questa ricerca, mi sono resa conto che è più che possibile che le polveri trasportino le malattie respiratorie; perlomeno, alcuni scienziati stanno esaminando quest’ipotesi. Sono rimasta molto colpita dalle teorie di diversi scienziati secondo cui la MERS, la SARS e patologie simili potrebbero viaggiare con le polveri. Sappiamo per certo che il virus si trasmette per vie aeree, perciò non è poi così improbabile che possa essere trasportato anche dalle polveri. Alla luce di questa possibilità, tutta questa idea della quarantena mi è sembrata piuttosto primitiva. Chiaramente può essere di aiuto, ma non sul lungo termine. Potrebbe esserci una seconda ondata della pandemia, seguita da una pausa, poi da una terza ondata, e così via. Finché non ci renderemo conto che non siamo soli su questo pianeta, che siamo parte di un ecosistema complesso e che dobbiamo lavorare come cittadini del pianeta, non risolveremo nessuno di questi problemi. Mi sembra di tornare al 1969, quando per la prima volta ci siamo visti al di fuori del pianeta. Come disse Buckminster Fuller, «siamo passeggeri a bordo dell’astronave Terra a cui non sono state date istruzioni per l’uso». Trovo che avesse proprio ragione: stiamo fallendo miseramente. In pratica, non sappiamo quello che facciamo [ride].
Durante il lockdown, il senso di urgenza e la necessità di gestire il distanziamento e le difficoltà del presente, nonché dell’immediato futuro, hanno dato vita a tutta una serie di dibattiti, discussioni e sessioni di brainstorming in vari angoli della comunità artistica…Hai preso parte attiva alla discussione e hai partecipato a molte interviste che si interrogavano sulla risposta e sul ruolo degli artisti in questa situazione…Che spirito ora accomuna la comunità artistico-scientifica dove sei attiva?
Credo che la comunità artistico-scientifica possa rivestire un ruolo fondamentale in questo momento, soprattutto gli artisti che si occupano della scienza e dei fatti, non solo chi si dedica all’estetica della scienza. Di sicuro, la scena artistica guidata dal mercato ne sarà trasformata. Noi artisti della comunità artistico-scientifica siamo rimasti ai margini di questo sistema, perché le nostre opere non sono del tutto compatibili con il mercato. Ho sempre avuto qualche problema con il mercato artistico, perché soddisfa l’1% e pone l’attenzione su un oggetto nella sua unicità. Non è un sistema adeguato per gli artisti multimediali, che si servono soprattutto delle tecnologie e realizzano opere immateriali, molteplici, mutabili. Tuttavia, nel corso degli anni, la comunità artistico-scientifica si è rafforzata. Molti di noi hanno una base accademica che ci ha permesso di sperimentare, fare ricerche e collaborare a livello interdisciplinare per uno sviluppo dalle modalità molto avanzate, aggirando gli aspetti e i vincoli commerciali. In realtà sono speranzosa, penso che emergerà un nuovo approccio nei confronti del mercato e della produzione d’arte. Voglio credere che sarà più egualitario. La domanda, oggi, è come emergerà. Nelle interviste e nelle chiacchierate con i miei colleghi e i miei pari intendevo indagare proprio questo aspetto. È importante che questa crisi non ci proietti in una nuova giungla nella quale vince ancora la legge del più forte. Il mio obiettivo è mostrare e promuovere il lavoro di artisti, designer, architetti, scienziati e in generale dei professionisti che rispetto e con cui interagisco. L’unica cosa che sappiamo per certo è che, attorno a noi, tutto è incerto. Non è il momento di starcene con le mani in mano, perché troppe persone sono lì che pensano a come tornare alla vecchia normalità e creare altri muri e altre barriere… Rischiamo di perdere l’opportunità di generare un cambiamento da tutto questo. Sono un’ottimista senza speranza, perciò immagino l’emergere di un nuovo modo di pensare e di relazionarsi. In un certo senso siamo già su questa strada, dato che quasi tutti siamo isolati ma connessi a livello globale: siamo su Zoom tutto il giorno, questo dovrà pur portare a qualcosa! Sento davvero che non possiamo rimanere con le mani in mano.
VICTORIA VESNA: [ALIEN] STAR DUST», 2020
Natural History Museum, Vienna
Images (all): Victoria Vesna, «[Alien] Star Dust», 2020, Courtesy the Artist