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Home exhibitions

Ipotesi Metaverso

Il digitale come paesaggio

Fabio Giagnacovo by Fabio Giagnacovo
30/06/2023
in exhibitions, Focus
Ipotesi Metaverso

In Ipotesi metaverso ogni opera in mostra è un’ipotesi di qualcosa che ancora non esiste o che non conosciamo a pieno, e si sa, non tutte le ipotesi hanno la stessa concretezza e la stessa forza. Se l’astrazione di Anadol appare spettacolare ma estremamente superficiale e vuota di significato, un’altra astrazione, quella dello Studio FUSE*, apre a concetti e condizioni estremamente attraenti. L’installazione audiovisiva Multiverse .echo occupa un’intera sala ed è composta da diversi schermi che ininterrottamente mostrano movimenti essenziali e fluidi di paesaggi astratti monocromatici, così simili ma diversi l’uno dall’altro. L’opera, ispirata dalle teorie di Lee Smolin, il primo fisico a supporre il concetto di multiverso, ipotizzando la creazione di un nuovo universo di conseguenza ad ogni formazione di un buco nero, suggerisce, nella meditativa sala costantemente in movimento, la tanto affascinante quanto inquietante sensazione di vivere in diversi piani dell’esistenza contemporaneamente. Gli schermi si trasformano quasi in finestre osmotiche oltrepassabili con il nostro corpo, per ritrovarci chissà dove e chissà in che tempo, concetti che collassano nel movimento scivoloso di quei bit digitali di fronte a noi. Ma se fisicamente la sensazione si esaurisce nella concretezza della realtà, cerebralmente, questi schermi, sono assolutamente porte, aperture a concetti nuovi e inesplorati (e inesplorabili in fin dai conti), oltre ad essere pura estetica digitale, aura del sensibile che ci illumina assieme ai led dei diversi schermi.

Da quest’ambiente, ripassando nell’aura del totem Forme uniche della continuità dello spazio, ci troviamo in un altro territorio decisamente interessante, quello di Alex Braga: l’installazione audiovisiva Automatic Impermanence. In questo spazio buio il visitatore si relaziona all’IA A-MINT, creata dall’artista insieme ai professori Laudani e Riganti dell’Università Roma Tre, per saggiare quello che potremmo definire il senso del metaverso, o almeno una sua sfumatura. La musica suonata da un pianoforte senza pianista (il pianista è immateriale, proveniente dal metaverso, o lo stesso pianoforte, analogico e reale, è volto nel digitale, divenendo qualcosa di più complesso di un mero strumento musicale?), i versi decantati nell’atmosfera e le traduzioni dei corpi dei visitatori in ammassi di particelle digitali, che ricordano un po’ il cosmo, un po’ il micro-mondo della realtà (alfa e omega dimensionali dell’esistenza) concorrono a stabilire una connessione con il visitatore che non si esaurisce nella superficialità della materia, ma diviene connessione interiore dell’universo infinitamente grande e allo stesso infinitamente piccolo, elemento che racchiude il metaverso, o meglio, una sezione di un metaverso tra gli infiniti possibili del multiverso.

Quest’opera, assieme a quella dello studio FUSE*, indaga la filosofia del metaverso, il suo senso nei termini più ampi possibili, lasciando vagare il concetto senza alcuna costrizione cerebrale, gabbia aneddotica, sensazionalismo commerciale.

Per finire, prendiamo in considerazione la parte finale dell’esposizione, che inizia usciti dalla sala dell’installazione di Braga e termina con le già citate opere di Anadol e lo scialbo The Core di Joshua Chaplin. In questo lungo corridoio intervallato da piccole stanzine, troviamo le opere di più modeste dimensioni presenti in mostra, tra un presente e un passato che si relazionano e che concorrono ad identificare un futuro comune (pur, spesso, lontano dal concetto stretto di metaverso), facciamo tre esempi di relazioni riuscite, nell’economia percettiva generale dello spazio:

Partiamo da Simultaneità metropolitane di Fortunato Depero, in quello stile futurista maturo e perfettamente bilanciato, che dialoga con il video Everything is Temporary di Joe Pease, videoarte sottile e frammentata, assurda ed esistenziale, come i volti stranianti, nel groviglio cittadino, del futurista trentino. Nell’opera l’ambiente cambia continuamente mentre il protagonista, in piedi e di spalle al nostro punto di vista, è fermo, immobile, fino a diventare la barra verticale intermittente che vediamo quando scriviamo qualcosa al pc: allegoria lampante e carica di questioni, elegante e poetica illusione della nuova carne cronenberghiana, transfert dell’uomo elettrico così simile al motore a scoppio nell’uomo digitale.

Poi, il quadro barocco di Carlo Maratti che si specchia nei video sulle profondità acquatiche del duo Entangled Others. Questa relazione che potrebbe apparire sconsiderata, è stata scelta dagli artisti stessi e dice molto su di loro. A parte il fatto che le opere, così diverse, hanno numerose qualità formali in comune, come la temperatura dei colori e la costruzione piramidale dell’immagine, la sacralità barocca del quadro aiuta a sottolineare quella della natura del video. L’estetica perturbante del barocco si fonde a quella digitale per divenire estetica ecologica del XXI secolo nella rappresentazione finale.

Infine, la metafisica Piazza d’Italia con Arianna di Giorgio De Chirico che, in mostra si relaziona all’enigmatico Eco e Narciso di Giulio Paolini, opera datata 2017-2018 del leggendario artista novecentesco, ma che rimanda in qualche modo anche a Corridor di Cesar Santos. Tre ambienti che si proiettano oltre la fisica pur non risolvendosi nell’aleatorio spazio digitale. Tre spazi altri che si fanno spazio mentale nell’accezione più pura possibile. Tre rappresentazioni, enigmatica la prima, concettuale la seconda e organica la terza, di un superamento dell’oggettuale in un virtuale che rifugge la tecnologia e ne dimostra la sua preistoria.

Forse, proprio in questi ultimi paesaggi scorgiamo al meglio la fallacia dello spazio virtuale inteso come spazio opposto a quello analogico. Forse proprio quel metaverso di cui le grandi multinazionali parlano, con avatar, caschi da gamer e proiezioni coloratissime in 3D, eclissa il concetto antico ed esistenziale che si nasconde nel suo termine così arcaico, e che le nuove tecnologie, con il loro enorme potere percettivo possono ampliare, invadendo uno spazio che fino a poco fa poteva essere solo mentale, e quindi personalissimo (una rivoluzione su un concetto personale non può esistere). Non ci si può, però, lasciar fagocitare dalla mitologia della società postcapitalista che non di rado indirizza concetti e aspettative comuni su focus periferici e funzionali al consumo. A cosa serve immergerci nella realtà virtuale psichedelica di un casco VR se non siamo capaci di riconoscere l’enigma dechirichiano, l’elemento di presenza-assenza che fa dello spazio fisico della rappresentazione uno spazio matafisico?

Ipotesi Metaverso, a cura di Serena Tabacchi e Grabriele Simongini, Palazzo Cipolla, Roma, 05.04 – 23.07.2023 

immagini: (cover 1) Entangled Others, ph Luca Perazzolo (2) Studio fuse*, Multiverse.echo,  ph Luca Perazzolo

Precedentemente su Arshake:

G. Giagnacovo, Ipotesi Metaverso. La continuità dello spazio (digitale), Arshake, 21.06.2023
F. Giagnacovo, Ipotesi Metaverso a Palazzo Cipolla, Arshake, 16.06.2023

 

 

 

Tags: arsarshakeexhibitionFabio GiagnavocoinstallationinstallazioneIpotesi MetaversomostraPalazzo CipollaRoma
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