…Prosegue il racconto Luca Zaffarano sulle «Proiezioni» di Munari, traccia dell’intervento sulle Proiezioni di Bruno Munari che si è tenuto il 3 giugno 2014 nell’ambito della giornata internazionale di studi che il Museo del Novecento a Milano ha dedicato all’artista e nell’ambito della mostra «Munari Politecnico» al Museo del 900 di Milano, curata da Marco Sammicheli e Giovanni Rubino.
Proiezioni a fuoco continuo.
La prima esposizione in cui Munari presenta le diapositive a fuoco continuo si tiene a Milano alla Galleria del Fiore nel maggio del 1955, anche se in precedenza, per la precisione nel febbraio del 1954, la rivista Domus pubblica la fotografia di un esemplare di vetrino predisposto proprio per la proiezione multifocale[1]. Sull’invito della mostra milanese si annuncia che l’artista «proietterà le sue recenti composizioni a colori fissi a colori variabili come il giorno e la notte a due fuochi a fuoco continuo».
Nella doppia fotografia (delle figure che seguono) di un vetrino multi-focale del 1952 si può osservare che la composizione è realizzata con strati di materie plastiche di colore giallo su sfondo rosso. Una matassa di pellicola aggrovigliata come una specie di nuvola fuoriesce dal vetrino. Lo sviluppo nello spazio della micro composizione consente di non avere un unico punto di messa a fuoco dell’immagine, permettendo di creare immagini tra loro molto differenti. Lo spostamento graduale del fuoco consente un movimento virtuale, un effetto cinetico e cromatico che, pur nella sua breve durata, può delinearsi come un film astratto.
La prima immagine richiama in modo diretto la forma ambigua e matematica del Concavo-convesso sospeso in una atmosfera evanescente di colore sfocato. La seconda immagine richiama il motivo di una composizione molto organica. Il movimento continuo di spostamento del fuoco dalla prima alla seconda immagine consente all’artista di creare una pittura di impianto cinematografico.
Nel 1959 Munari progetta per l’azienda Danese di Milano un gioco in scatola al quale viene dato il nome di Scatola per proiezioni dirette. Nel foglio illustrativo Munari precisa che la confezione contiene: «tutto il materiale occorrente per fare piccole composizioni trasparenti da proiettare a colori (come quelle che Munari ha proiettato a New York e a Stoccolma, nei Musei e in case private) una tecnica nuova per l’arte visiva».
Nella fotografia che segue potete vedere una di queste opere proveniente dalla Collezione Vodoz-Danese di Milano e notare come la composizione ottenuta per sovrapposizione di materiale colorato e trasparente fuoriesca dal telaio della diapositiva.
Pittura cinematografica, polarizzata e scatole luminose
Nel 1952-1953 Munari realizza un’ulteriore variante, ruotando un filtro Polaroid davanti alla lampada della proiezione. La lente polarizzata ha una struttura a cristalli microscopici che funge da filtro per tutte quelle frequenze che non attraversano con incidenza perpendicolare il materiale. Pertanto, muovendo il filtro davanti alla lampada del proiettore, si possono ottenere un numero infinito di varianti nel continuo.
La pittura può anche sparire purché resti l’arte, scrive Munari sull’Almanacco Letterario Bompiani 1961.[2] Negli anni Sessanta Munari proseguirà questa ricerca producendo prima delle scatole luminose di pittura polarizzata denominate Polariscop e poi producendo cortometraggi di cinema sperimentale che illustrano certi risultati della sperimentazione in ambito percettivo.
Questa ricerca nasce dall’esplorazione delle possibilità offerte dal filtro Polaroid. Il film prodotto dall’azienda americana è costituito da lamine trasparenti che hanno la caratteristica di filtrare alcune componenti dello spettro luminoso in base al grado di incidenza della luce. Munari studia dunque a fondo questo materiale per identificare le sue proprietà caratteristiche e per capire come tale prodotto industriale possa essere impiegato nella comunicazione visiva e, ovviamente, con quali risultati estetici.
L’effetto del filtro Polaroid diventa visibile ponendo del materiale incolore tra un sandwich di filtri, in particolare con il movimento rotatorio di quello più vicino all’osservatore si crea un movimento virtuale della composizione creata dall’artista. Alcune di queste scatole luminose denominate Polariscop hanno un solo filtro polaroid sul fondo ed un interruttore per accendere la luce al neon posta all’interno dell’opera. La composizione, realizzata con del materiale fissato sul fondo – un fondo costituito appunto da un lastra di polaroid – appare proprio come nella figura 14, ovvero poco attraente e scarsamente convincente. Allo spettatore viene fornito un disco trasparente – il secondo filtro polaroid – suggerendo di portarlo davanti agli occhi, ruotandolo a piacere mentre si osserva l’opera. La meraviglia si rivela spesso in una esplosione improvvisa che non lascia dubbi sulla piacevolezza dell’esperienza.
In questo semplice esperimento sono racchiuse, a ben vedere, due caratteristiche cruciali del modo di intendere l’arte e la sua utilità sociale. Da una parte la sorpresa, la spettacolarità agiscono come leva fortissima al fine di avvicinare il pubblico alla poetica di un artista fortemente innovativo e non tradizionale. Dall’altra parte la composizione pittorica, fatta con materiale povero, quasi dal nulla, nasce dall’azione dello spettatore stesso che è coinvolto operativamente nel processo di formazione dell’immagine. All’artista viene assegnato il compito di creare un framework, uno spazio di lavoro e di regole ben definite (un certo materiale, una data composizione, regole di utilizzo), allo spettatore invece è assegnato il compito di creare a piacimento, per pura soddisfazione estetica, una pittura che si adatta alla propria sensibilità, senza forzature o imposizioni. Ruotando il filtro più esterno è infatti possibile, nei 360 gradi di un giro completo, ottenere innumerevoli sfumature dalla scomposizione della luce che attraversa il materiale plastico incolore ed i due strati di filtro polarizzante del sandwich.
Munari non è mai stato un pittore nel senso più tradizionale. Lo è sempre stato a modo suo, attraverso metodologie ed approcci inusuali, innovativi, aperti alla tecnologia, alle novità.
Una molteplicità di immagini
La pittura non è più una immagine, ma una molteplicità di immagini, non più statiche. Queste esperienze ci offrono l’occasione di riflettere sulla forma stessa del mondo, un mondo dinamico, in costante evoluzione, che può essere rappresentato e compreso solo attraverso una messa in scena (poetica) di questa stessa trasformazione continua. Se la realtà non riposa, per parafrasare il futurista Boccioni, la pittura, uscendo dalla cornice di un quadro, diventa ormai spazio visitabile, attraversabile, immateriale, diventa un ambiente di luce, è un’esperienza visiva, spaziale, totale e avvolgente. Nell’arte di Munari – come è stato sottolineato dal critico Carlo Belloli – «è difficile che un suo oggetto o una sua immagine stiano fermi a lungo: tutto si muove, o per l’aria, o per l’effetto ottico, o per altri possibili stimoli»[3].
Il linguaggio ha come dominio di definizione la tripla dimensione colore-spazio-tempo. Attraverso l’uso della luce e della proiezione vengono creati ambienti luminosi, attraverso la rotazione del filtro polarizzante vengono creati movimenti cromatici virtuali.
La riproposizione di una pittura cromo-cinetica, teorizzata fin dagli anni ’20 da esponenti della scuola della Bauhaus, trova una raffinata reinterpretazione negli ambienti luminosi di Munari dei primi anni ’50. Le opere dell’artista milanese precedono tanti lavori che, proprio a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta, si avvicendano sul tema: dalla elettropitture di Frank Malina, ai mobiles luminosi dell’italiano Nino Calos, ai cromo-cinetismi di Gregorio Vardanega e di Martha Boto, alle esperienze ludiche, civiche e collettive del gruppo parigino del G.R.A.V. (Groupe de Recherce d’Art Visuel), alle opere di Julio Le Parc, di Heinz Mack, di Nicolas Schöffer e di molti altri protagonisti internazionali delle correnti cinetiche.
«Se tra due dischi di polaroid si inserisce un pezzetto di cellophane come per fare un sandwich e lo si guarda controluce, si vede che il cellophane, incolore, ha assunto vari colori. Se si fa ruotare lentamente uno dei due dischi di polaroid, i colori cambiano fino ai complementari. Questo è il semplice fenomeno fisico da studiare. Si tratta di sapere: quante sono le materie plastiche senza colore che danno colori? Che colore danno? Come si possono usare? Come varia il colore? Si possono ottenere colori sfumati e colori a settori geometrici? Quale inclinazione occorre dare a una certa materia plastica per ottenere il colore voluto? Come può tutto ciò diventare oggetto di comunicazione visiva, di informazione e di espressione? In quale modo si possono alterare queste materie per avere una sensibilizzazione della luce? Che texture si possono fare? Che cosa succede col colore?»[4].
Tra le principali esposizioni, in cui Munari presenta le proiezioni polarizzate, ricordiamo la mostra al Museo d’arte Moderna di Stoccolma nel 1958, al National Museum of Modern Art di Tokyo nel 1960 accompagnato dalla musica elettronica di Toru Takemitsu, al Teatro Ruzante di Padova e nella sede del «Gruppo N» nel 1961, alla Biennale di Venezia del 1966 con una sala personale e nello stesso anno alla Howard Wise Gallery di New York, alla mostra collettiva «Campo Urbano» a Como nel 1969, alla Hayward Gallery di Londra nel 1970 all’interno della mostra collettiva «Kinetics» e in molte altre mostre ancora.
[1] Bruno Munari, Le proiezioni dirette di Bruno Munari, in «Domus», n. 291, Milano, Febbraio 1954 Ibid.
[2] Achille Perilli, Fabio Mauri (a cura di), Inchiesta: morte della pittura?, in Almanacco Letterario Bompiani 1961, Bompiani, Milano, 1960
[3] Carlo Belloli, Designers italiani. Con Bruno Munari continua la galleria dei personaggi che hanno inciso sull’evoluzione del costume artistisco italiano, in Ideal Standard gennaio 1965 n.1-2, Milano
[4] Bruno Munari, Design e comunicazione visiva, Laterza, Bari, 1968.
La giornata internazionale di studi, organizzata in concomitanza con la mostra «Munari Politecnico», è stata organizzata da Marco Sanmicheli e Giovanni Rubino (curatori della mostra) e sponsorizzata dal Massimo & Sonia Cirulli Archive di New York con la partecipazione di Pierpaolo Antonello (Univ. Cambridge, UK), Zvonko Makovic (Univ. Zagabria, HR), Matilde Nardelli (UCL, UK), Maria Antonella Pelizzari (NY Hunter School, USA), Jeffrey Schnapp (MetaLAB, Harvard, USA), Margherita Zanoletti (Univ. Cattolica, Milano, IT). LeProiezioni sono state oggetto di una breve conferenza in chiusura della giornata.
Immagini
(1) Bruno Munari, diapositive (con estrusione di materia plastica) per installazioni di pittura dinamica attraverso una proiezione a fuoco variabile, 1952, collezione Fondazione Jacquelin Vodoz, Bruno Danese, Milano, photo by Artribune (2 e 3) Bruno Munari, due immagini ottenute dallo stesso vetrino per Proiezione Multifocale, 1952, collezione Fondazione Jacquelin Vodoz, Bruno Danese, Milano, photo by Roberto Marossi (4) Bruno Munari, diapositiva per proiezione multifocale, 1952, collezione Fondazione Jacquelin Vodoz, Bruno Danese, Milano, photo by Roberto Marossi (5) Bruno Munari, un momento della proiezione polarizzata del 1953 sulla facciata del Palazzo Ducale di Sassuolo nell’ambito della mostra «Bruno Munari. Fantasia esatta», a cura di Miroslava Hajek e Luca Panaro, Festival della Filosofia, Modena 2008 (6 e 7) Bruno Munari, due momenti di un Polariscop, anni ’60, collezione Giancarlo Baccoli, Brescia, photo by Pierangelo Parimbelli (8) Bruno Munari, proiezione diretta, 1950, collezione Fondazione Jacquelin Vodoz, Bruno Danese, Milano, photo by Roberto Marossi.