In occasione della mostra «Munari Politecnico» al Museo del 900 di Milano, curata da Marco Sammicheli e Giovanni Rubino, si è tenuta il 3 giugno 2014 una giornata internazionale di studi su Bruno Munari sponsorizzata dal Massimo & Sonia Cirulli Archive di New York con la partecipazione di Pierpaolo Antonello (Univ. Cambridge, UK), Zvonko Makovic (Univ. Zagabria, HR), Matilde Nardelli (UCL, UK), Maria Antonella Pelizzari (NY Hunter School, USA), Jeffrey Schnapp (MetaLAB, Harvard, USA), Margherita Zanoletti (Univ. Cattolica, Milano, IT). Le Proiezioni sono state oggetto di una breve conferenza in chiusura della giornata. Arshake ha il piacere di pubblicare l’intero intervento, qui diviso in due giornate.
Bruno Munari. Dipingere con la luce.
L’artista Lazslo Moholy Nagy (1895 – 1946) pubblica nel 1925 il libro Pittura Fotografia Film[1], un saggio diventato presto celebre come l’ottavo volume della collana edita dalla scuola Bauhaus, fondata a Weimar per iniziativa dell’architetto Walter Gropius e di artisti come Wassily Kandinsky e Paul Klee. In un capitolo intitolato La pinacoteca domestica l’autore chiarisce il suo pensiero ipotizzando alcuni possibili percorsi dell’arte a venire: «E’ probabile che lo sviluppo futuro conferisca grande importanza alle proiezioni di composizioni cinetiche, ottenibili addirittura, con molta probabilità, dall’intersezione vicendevole di raggi e masse colorate liberamente fluttuanti nello spazio …». Ed ancora, cercando di delineare un futuro tecnologico ormai incombente: «Oltre a ciò sussiste la possibilità di raccogliere diapositive a colori proprio come si fa coi dischi». L’artista ungherese, inoltre, fa ampio riferimento alle possibilità offerte dagli sviluppi tecnologici più recenti riguardanti la riproduzione di quadri, le fotografie, il cinema sperimentale. Il passo verso una pittura proiettata non si è ancora concretizzato, anche se durante gli anni ’20 autori come Thomas Wilfred (1889-1968), Kurt Schwerdtfeger (1897 – 1966) e Lazslo Moholy Nagy (1895-1946) realizzano astrazioni meccaniche grazie alla modulazione di diverse sorgenti luminose. Con buona probabilità lo scritto teorico dell’artista ungherese è stato determinante nella formazione del pensiero estetico di Bruno Munari (1907-1998), proprio perché in esso l’artista milanese ritrova enunciato un interesse condiviso verso un’arte totale, d’ambiente, smaterializzata, in cui la pittura non è più statica, ma assume forme completamente dinamiche. Proprio sul tema delle installazioni e degli ambienti di luce, in un’intervista rilasciata verso la fine della sua vita, Munari mette in relazione l’insoddisfazione per il modo statico in cui il futurismo aveva trattato il movimento con la necessità di sperimentare «una materia che prende corpo nello spazio e che rende visibile una cosa che prima non si conosceva, questo potrebbe essere anche un raggio di luce»[2].
I lavori dei pionieri delle avanguardie europee degli anni ’20 e ’30 rappresentano per Munari il punto di partenza per lo sviluppo di una pittura immateriale (Proiezioni dirette, 1950), dinamica e non statica (Proiezioni a fuoco variabile, 1952), interattiva e senza ripetizione meccanica (Proiezioni polarizzate, 1952 e Polariscop, anni ’60). Analizzeremo queste ricerche mostrando come la loro successione temporale è legata allo sviluppo di un pensiero estetico e teorico che, proprio con gli ambienti di luce, raggiunge uno dei punti di maggiore innovazione della creatività munariana.
Proiezioni dirette. Il dinamismo di una pittura tascabile.
A partire dal 1950 Munari realizza delle proiezioni di composizioni costruite con materiali «trasparenti, semitrasparenti e opachi, violentemente colorati o a colori delicatissimi, con materie plastiche tagliate, strappate, bruciate, graffiate, liquefatte, incise, polverizzate; con tessuti animali e vegetali, con fibre artificiali, con soluzioni chimiche»[3]. Questi materiali vengono inseriti all’interno di comuni telaietti per diapositive. La proiezione ottenuta dalle micro composizioni toglie fisicità alle opere e restituisce, attraverso la luce, con proiezioni su larga scala, una dimensione monumentale, spettacolare.
Munari spiega che con un piccolo vetrino si può affrescare una cupola o anche che in una tasca si può portare tutta una grande mostra. L’autore immagina l’ambientazione di questo nuovo tipo di opere d’arte nel contesto della progettazione di una casa moderna: «Si suppone che la casa del futuro avrà un minimo spazio abitabile in rapporto al massimo comfort con la minima fatica di mantenerlo. In questo ambiente già funzionano le musiche incise su nastro, ma per le arti visive non si era ancora fatto nulla (salvo le riproduzioni fotografiche di opere del passato)»[4].
Si tratta di opere in miniatura, micro composizioni che vengono visualizzate attraverso un proiettore. Se il proiettore ha una lampada sufficientemente potente è possibile allestire ambienti luminosi di grandi dimensioni. «Non sono fotografie a colori, sono proiezioni dirette di materie» precisa l’autore nel pieghevole che annuncia la prima presentazione a Milano nel 1953.
Queste composizioni pittoriche vengono proiettate per la prima volta nell’ottobre del 1953 a Milano nello Studio B24 degli architetti Brunori, Radice e Ravignani. Munari, nell’articolo riguardante le Proiezioni dirette scritto nel 1954 per la rivista «Domus», osserva orgogliosamente che l’ingombro di una raccolta di 100 quadri è di soli cm 5 x 5 x 30, pertanto qualunque collezionista può portarsi comodamente la sua pinacoteca in viaggio, proiettare le pitture sulle pareti della camera d’albergo, in dimensioni variabili dai pochi centimetri a qualche metro.
Tra i differenti obiettivi di Munari vi è anche quello di avvicinare la produzione artistica ad una dimensione culturale privata, cercando le modalità per un dialogo tra arte, sperimentazione e pubblico che includa elementi di divertimento, di spettacolarizzazione o di gioco come pre-condizione per il coinvolgimento degli spettatori. L‘affermazione presente nell’articolo: «Il vivere moderno ci ha dato la musica in dischi […] ora ci dà la pittura proiettata» [5] mette in risalto come, affinché davvero si possa realizzare un avvicinamento tra arte e vita quotidiana, sia necessario trovare le soluzioni adeguate, anche a problemi di natura tecnologica, in modo che la fruizione di un’opera possa avvenire con i mezzi più adeguati ai linguaggi della contemporaneità.
Dopo aver esordito in pubblico a Milano nel 1953, Munari ripropone, nel corso dello stesso anno, le Proiezioni dirette nel grande studio di Gio Ponti e associati. L’anno seguente l’artista presenta le sue pitture di luce a New York, prima nello studio di Leo Lionni e poi nella personale, che condivide con il grafico americano Alvin Lustig, nel 1955 al MoMA.
[1] Laszlo Moholy Nagy, Pittura Fotografia Film, Einaudi, Torino, 1987
[2] Intervista a Bruno Munari, a cura di Miroslava Hajek, in Bruno Munari Instalace, Catalogo della mostra al Castello di Klenova, 1999
[3] Bruno Munari, Le proiezioni dirette di Bruno Munari, in «Domus», n. 291, Milano, febbraio 1954
[4] Bruno Munari, Codice Ovvio, Einaudi, Torino, 1971
[5] Bruno Munari, Op. cit., Milano, febbraio 1954, Milano. Questa affermazione venne copiata da Victor Vasarely che la riprende nelle Note per un Manifesto scritte in occasione della storica mostra «Le Mouvement» alla Galleria parigina di Denise Renè nel 1955.
Immagini
(cover) immagine ottenuta proiettando il vetrino di fig. (1), photo by Roberto Marossi (1) Bruno Munari, diapositiva per proiezione diretta (1950), collezione Fondazione Jacquelin Vodoz – Bruno Danese Milano, photo by Roberto Marossi (2) Bruno Munari, diapositiva per proiezione diretta,1950, collezione Fondazione Jacquelin Vodoz – Bruno Danese Milano, photo by Roberto Marossi (3) Immagine ottenuta dalla proiezione del vetrino di fig. 3, photo by Roberto Marossi (4) Bruno Munari, esempio di proiezione diretta, 1950, collezione Fondazione Jacquelin Vodoz – Bruno Danese Milano, photo by Roberto Marossi (5) esempio di proiezione diretta, 1950, collezione Fondazione Jacquelin Vodoz – Bruno Danese Milano, photo by Roberto Marossi