Navigare come imperativo categorico assoluto di noi umani. Se potessi inventarmi un mito fondatore della nostra esistenza mi piacerebbe pensare ad un Adamo a cui é stata fornita un isola paradisiaca ed circondata da un mare burrascoso e imprevedibile che decide di costruire una barca per andare a vedere cosa c’é dall’altra parte. Un Ulisse dantesco pronto ad affrontare l’ignoto per soddisfare la propria curiosità di specie. D’altronde l’evoluzione ci ha regalato un cervello sproporzionatamente grande e con esso é arrivata un straordinaria curiosità che ci spinge ad esplorare oltre quello che vediamo e tocchiamo con mano.
Può sembrare assurdo che nell’epoca in cui é possibile esplorare le aree più remote del pianeta dalla comodità delle nostre case attraverso il computer, il viaggio fisco nella nella parte più liquida e imprevedibile del nostro globo terraqueo possa continuare a mantenere intatto tutto il suo fascino. Ma forse il perdersi oggi é ancora più importante oggi di quanto non lo sia stato mai in passato quando lo sconosciuto e l’inesplorato era così a portata di mano.
Molti dei vestiti che tornano dalle navigazioni intorno al mondo parlano dei mari antartici e come quei luoghi freddi dove il vento ruggisce violento e la notte nasconde alla vista i pericolosi icebergs siano un luogo inumano e solitario. Io come molti di noi non ho mai navigato qui mari ne probabilmente lo farò mai però lasciare il porto e mettersi in mare é un modo per entrate in contatto con quella natura pura e paurosa anche se la nostra navigazione é solo un crociera estiva per le tiepide acque del Mediterraneo. Anche perché per perdersi in questo mondo, parafrasando Alex Carozzo, qualsiasi oceano va bene.
[nggallery id=63]
Un poco come andare in montagna navigare é sempre stato visto allo stesso tempo come un gesto di umiltà e di sfida. Sentirsi piccoli davanti alla forza impetuosa e a volte paurosa della natura e nello stesso tempo avere la vanità se non proprio il coraggio di confrontarsi con essa. Una idea romantica del confronto tra l’uomo e la natura e un intera poetica che potrebbe essere necessario riscrivere e ripensare davanti ai mutamenti globali che stiamo vivendo.
In questo senso navigare sta anche diventando un modo per capire la portata del nostro lascito globale. Il grande vortice di plastica che caratterizza il centro dei nostri oceani, l’impatto che questa ha su i micro-organismi che vivono nel mare, il costante aumento dell’acidità del mare dovuto all’aumento dell’anidride carbonica nell’aria, la riduzione della varietà e dell’età media dei pesci per effetto della pesca industriale, la scomparsa di alcuni fragili ecosistemi costieri per via di una selvaggia piscicoltura sono solo alcuni dei fattori che potrebbero cambiare la percezione del mondo, dell’oceano della solitudine umana e sopratutto del impatto che noi abbiamo, abbiamo avuto e avremo sul mondo che ci circonda.
D’altra parte navigare é sempre stato un grande esercizio nella gestione del rischio. Galleggiare su di un liquido che non possiamo respirare ne bere alla mercé del tempo, ci ha costretto a sviluppare un ricco prontuario di ricette che suggeriscono cosa fare quando succede o non succede qualcosa. Il piano di navigazione, i porti rifugio, le tabelle delle maree, le correzioni magnetiche, i giri di bussola, etc.
Ma davanti a questi grandi cambiamenti navigare acquista di un tratto un doppia valenza. Da una parte quella sfida intellettuale e ineguale tra il nostro raziocinio e la imprevedibile forza della natura e dall’altra la constatazione di come il nostro agire come specie (che non voglio chiamare stupidità per non entrare in una discussione morale sul tema) abbia effetti globali riscontrabili anche negli angoli più remoti del pianeta.
Ed é sorprendente vedere come la nostra specie non sia stata fino ad ora capace di trasformare la straordinaria capacità di gestione del rischio che così bene può essere rappresentata dalla figura del buon marinaio in una coscienza generale che ci possa permettere di gestire rischi più astratti che non sappiamo toccare con mano o analizzare aneddoticamente.
Siamo una specie che é riuscita a colonizzare quasi tutti gli ecosistemi che ci circondano. Il mare non lo abbiamo mai colonizzato veramente. Lo abbiamo solcato, lo abbiamo usato come pattumiera, é stato un campo di molte battaglie e lo abbiamo saccheggiato ma ancora non lo abbiamo capito ne molto meno domato. In questo senso navigare oggi é anche un modo di celebrare la nostra propria fragilità come specie e come persone. Come nuovi Ismaele, la prossima volta che questi pensieri vi peseranno addosso com «un umido e piovoso novembre» vi invito a imbarcarvi e trovare noi stessi. Buon vento!
Il testo è un contributo di Carlo Buontempo per lo Special Project del Banner di Arshake «Navigare», realizzato dal collettivo italiano Studio++ (F. Ciaravella, U. Daina, V.Fiore), introdotto dal testo critico di Antonello Tolve.