I vari imponenti progetti di Alan Sonfist, di Carl Andre, Alice Aycock, Mel Chin, Walter De Maria, Jan Dibbets, Hans Haacke, Michael Heizer, Nancy Holt, Neil Jenney, David Medalla, Robert Morris, Dennis Oppenheim, Beverly Pepper, Robert Smithson, James Turrell, Gunther Uecker e Seth Wulsin, le declinazioni europee di Chris Drury, Andy Goldsworthy, Richard Long, Eberhard Bosslet, Nils-Udo, Christo e Jeanne-Claude – senza dimenticare la Terra Animata (1967) di Luca Maria Patella e i vari lavori nati in seno all’esperienza italiana dell’Arte Povera – o gli scenari proposti da Georgia Papageorge (Sud Africa) e Andrew Rogers (Australia) mostrano, da vari angoli linguistici (a volte differenti), l’attitudine a lavorare con le cose della natura, a trasformare il mondo in studio smisurato dell’artista. «Un deserto, una spiaggia, un campo, una foresta, diventa uno studio, un luogo di attività creativa”, puntualizza William Malpas. «Ciò può dirsi del colore stesso e della forma e dell’umidità e della resistenza e della forza e della dimensione del muschio, per esempio. O di una pietra. O di una crepa in una formazione rocciosa. Il modo in cui la luce cade su una chiazza d’erba, quei piccoli brandelli d’erba morta, giallognola, sotto cui cresce l’erba nuova, più verde. Le pigne, chiuse. I fiori piegati verso il sole, nel tardo pomeriggio. Queste sono le cose di cui si occupa chi fa land art. Queste sono le realtà con cui gli artisti creano le proprie opereA desert, a beach, a field, a forest becomes a studio, a place of creative activity», puntualizza William Malpas.»[1].
Tuttavia già Barbara Rose, attenta lettrice del proprio tempo, nella quarta puntata dei suoi Problems of Criticism avverte rapidamente gli inevitabili compromessi di questa nuova situazione artistica con il mercato dell’arte[2]. Ispirata al romanzo di fantascienza Earthworks (1965) di Brian W. Aldiss, la mostra Earth Works, organizzata da Robert Smithson nell’ottobre del 1968 alla Dwan Gallery di New York[3], rappresenta – seppure legata ad uno sguardo pessimistico sul futuro del patrimonio ambientale americano – un primo irreversibile contatto con la scena e i mammut del mercato artistico internazionale.
Fanno fede a questo panorama le cui declinazioni attuali sono messe in campo da artisti come Vik Muniz (che propone un ventaglio di meravigliose ipotesi progettuali legate all’ecosostenibilità e alla denuncia sociale), molti progetti contemporanei che spaziano con disinvoltura tra differenti codici, strumenti, luoghi. Basta girare l’angolo, e pensare all’istallazione Untitled di Pierre Huyghes che trasforma un’area del parco Karlsauen di Kassel in un biotopo abitato da una statua di donna (la cui testa è avvolta in un alveare) e due cani, uno dei quali – diventato ben presto il simbolo di documenta13 – è un levriero la cui zampa è stata dipinta di rosa. O alla sorprendente installazione, pensata sempre per documenta13, I Need Some Meaning I Can Memorize (The Invisible Pull) progettata da Ryan Gander all’entrata del Museum Fridericianum, dove il vento che spira e avvolge lo spettatore con un alito pungente e con una voce che ricorda il vento Matteo nato dalla penna di Dino Buzzati è interprete assoluto dello spazio e compagno dello spettatore nel fare esperienza del luogo e nobilitare i territori dell’emozione.
[1] W. Malpas, Land Art: A Complete Guide to Landscape, Environmental, Earthworks, Nature, Sculpture and Installation Art (Sculptors), cit., p. 7. tradotto in italiano dall’originale: «This means the very texture and colour and shape and dampness and springiness and strength and size of moss, for instance. Or a stone. Or a crevice in a rock formation. The way the light falls on a patch of grass, the little bits of dead, yellowish grass on top of the newer, green grass. Pine cones, closed-up. Flowers turning sunward in the late afternoon. These are the things land artists deal with in making art. These are the actualities that artists employ when they create artworks»
[2] B. Rose, Problems of Criticism / IV The Politics of Art Part III, cit.
[3] Questo primo incontro con una galleria è seguito, nel febbraio dell’anno successivo, dalla mostra Earth Art, curata da Willoughby Sharp negli spazi del Andrew Dickson White Museum of Art at Cornell University | Ithaca, New York (dall’11/02 al 16/03/1969), che ne sancisce l’ingresso definitivo nel mondo delle istituzioni e del sistema dell’arte.
Questa è la seconda di otto parti di una riflessione critica di Antonello Tolve che ripercorre il rapporto tra arte, tecnologia e natura nella storia, attraversando una serie di produzioni artistiche rivolte alla relazione tra uomo e ambiente, dalla Land Art alla Transgenetic art e al Bio Activism. Cliccate qui per leggere la prima puntata.
Immagini (1) Luca Maria Patella, Terra Animata,1967, tela fotografica b/n, 125 x 185 cm, courtesy of Luca Maria Patella (2) Pierre Huyghe, Untilled, Documenta 13, 2013