Arshake pubblica, oggi, la seconda di cinque parti, del progetto di ricerca nato dalla collaborazione tra Luca Zaffarano e il fotografo Pierangelo Parimbelli che ha realizzato le immagini inedite che accompagnano il testo.
> Bruno Munari e le Macchine Inutili. pt I (pubblicata su Arshake il 12 marzo 2014)
Bruno Munari e le Macchine Inutili. Il Cinetismo.
L’evoluzione del pensiero estetico di Bruno Munari, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, parte dalle teorizzazioni, spesso incompiute, del futurismo, per sperimentare nel concreto la costruzione e la fruizione di immagini al di fuori del solco tradizionale della pittura o della scultura statica.
Abbiamo scelto alcune immagini che tendono ad illustrare il movimento libero degli elementi della macchina. Le Macchine Inutili rispondono al principio in base al quale la pittura va liberata nello spazio e trasportata nella dimensione temporale, per questo motivo esse sono state collocate da Frank Popper, assieme alle opere di Man Ray, Rodchenko e Calder, all’origine dell’arte cinetica.[1]
La poetica di Munari non è però basata esclusivamente sulla pittura, mette in gioco anche il coinvolgimento emotivo dello spettatore con effetti di sorpresa. Sperimenta la costruzione di ambienti spettacolari, grazie all’induzione nel fruitore di sorpresa e meraviglia. Gli elementi mobili delle Macchine Inutili sono forme aeree in cartoncino, alluminio, legno, plastica o altri materiali leggeri. Ciascuno di essi, senza vincoli con gli altri elementi della macchina, partecipa con il proprio movimento rotatorio, indipendente per direzione e velocità, alla composizione finale che può essere vissuta come una pittura cinetica sempre mutevole.
Le Macchine Inutili hanno anche il compito di creare un ambiente, un riparo per lo spirito, affaticato da tante macchine che riempiono in modo utilissimo la vita moderna; un riparo in cui trovare conforto attraverso la poesia del farsi e del disfarsi dei disegni creati attraverso gli elementi in movimento della macchina.
Concludiamo questa scheda riportando un breve estratto della prima recensione delle Macchine Inutili apparsa sulla stampa nel 1934 a cura del critico Luigi Pralavorio. Lo scritto descrive in modo completo ed in poche righe tutto lo sforzo creativo di Munari. «Naturalmente il pubblico ha chiesto il perché di questa invenzione. E Munari ha spiegato com’egli sia arrivato alle macchine inutili, dalla disillusione della pittura. La pittura, per quanti sforzi di liberazione dalle vecchie forme e dalle abusate ispirazioni l’artista faccia, resta pur sempre arte già compiuta, e, ai fini delle espressioni assolutamente nuove, arte inquinata di passato e di gloria. Per esprimere originalmente il nuovo occorre una forma d’arte del tutto nuova. S’è scoperto già il cinematografo che soppianta meravigliosamente ogni altra forma di spettacolo: dovremo trovare altre forme d’espressione artistica per sostituire la pittura e la scultura. Le macchine inutili ne sono un tentativo».[2]
Bruno Munari e le Macchine Inutili. L’astrazione.
La caratteristica formale più facilmente «leggibile» di una Macchina Inutile è quella della sua struttura geometrica astratta. Gli elementi sono tra loro in rapporto armonico, hanno delle forme elementari come il quadrato, il rettangolo, il cerchio (talvolta la sfera), sono dipinti a tinte piatte, cioè senza alcuna caratteristica espressiva. Queste realizzazioni si inseriscono a pieno diritto nel solco della pittura concreta, costruita attorno a forme e cromatismi che nulla hanno a che fare con la natura e il mondo esterno, sono esse stesse la concretizzazione di un’idea estetica (da questo concetto deriva l’origine del nome «arte concreta») e non una rappresentazione di qualcosa che esiste nel mondo esterno. Munari spiega in questo modo il suo obiettivo: «Personalmente pensavo che, invece di dipingere dei quadrati e dei triangoli o altre forme geometriche dentro l’atmosfera, ancora verista (si pensi a Kandinskij) di un quadro, sarebbe stato forse interessante liberare le forme astratte dalla staticità del dipinto e sospenderle in aria, collegate tra loro in modo che vivessero con noi nel nostro ambiente, sensibili alla atmosfera vera della realtà».[3]
La composizione finale può essere intesa come una pittura astratta fluttuante nello spazio. Nei fotogrammi riprodotti gli elementi della macchina hanno forme geometriche elementari con poche note di pittura. La presenza del colore nella composizione è ridotta al minimo, all’essenziale.
La città di Milano e il Museo del Novecento dedicano una retrospettiva al poliedrico e visionario Bruno Munari (1907-1998). In questa occasione e partendo dalla sua serie di «Macchine Inutili», Luca Zaffarano traccia un ritratto a tutto tondo di questo artista eclettico che Arshake pubblica in cinque parti, con cadenza settimanale. Le Macchine Inutili diventano filo conduttore di un racconto che si ricollega alle molteplici sfaccettature dell’artista, illustrato da fotografie inedite scattate da Pierangelo Parimbelli.
[1] F. Popper, L’arte cinetica, Einaudi, Torino, 1970, p. 334
[2] Luigi Pralavorio, Delle Macchine Inutili e di altro, in Cronaca Prealpina, 28 maggio 1934
[3] Bruno Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1966
immagini (cover) Bruno Munari, Macchina Inutile 1956-1968, prodotta in serie, alluminio serigrafato, photo by Pierangelo Parimbelli.(1) Bruno Munari, Macchina Inutile 1945-1995, particolare, fotografia di Pierangelo Parimbelli. (2) Bruno Munari, Macchina Inutile 1956-1968, dentro la macchina, photo by Pierangelo Parimbelli. (3) Bruno Munari, Macchina Inutile 1956-1968, prodotta in serie, alluminio serigrafato, gif con diversi momenti fotografati da Pierangelo Parimbelli. (4 ) Bruno Munari, Macchina Inutile 1956-1968, dentro la macchina, photo by Pierangelo Parimbelli.