La pratica artistica di Francis Alÿs (1959, Anversa, Belgio) è segnata dal rapporto costante tra poetico e politico, come viene apertamente dichiarato nel sottotitolo di The Green Line – «Sometimes doing something poetic can become political and sometimes doing something political can become poetic [Talvolta fare qualcosa di poetico può divenire un fatto politico, e talvolta fare qualcosa di politico può divenire un fatto poetico]» un video del 2004 che chiude e, al contempo apre, la grande retrospettiva assolutamente «palindroma» che gli dedica il museo Madre di Napoli, co-prodotta con il Centre for Contemporary Art Ujazdowski Castle di Varsavia, a cura di Andrea Viliani e Eugenio Viola.
Alÿs decostruisce il medium, annienta la sua convenzionale funzione per dar luogo a nuovi sistemi linguistici che gli consentono di sconfinare nel surreale: pittura, scultura, fotografia e video costituiscono le fondamenta di un’architettura dell’assurdo in cui si mescola realtà e illusione. Molte delle opere dell’artista belga hanno origine da azioni performative apparentemente inconcludenti come in Paradox of Praxis 1 – Sometimes Making Something Leads to Nothing (A volte fare qualcosa non conduce a nulla) del 1997, in cui egli stesso spinge per le strade di Città del Messico un cubo di ghiaccio per nove ore fino a vederlo sciogliersi completamente. Un gesto estetico che ricorda gli happening di Allan Kaprow (Kaprow’s Drag del 1984 o Fluids del 1967, ad esempio), un’operazione scultorea inversa, poeticamente distruttiva, che sottolinea gli sforzi vani di un Paese, il Messico, che, nonostante le apparenze, non ha ancora compiuto il processo di modernizzazione e di sviluppo sociale a cui aspira.
Indagando contesti di urgenza e di emarginazione, come un flâneur contemporaneo, l’artista attraversa luoghi limite, confini culturali e territoriali: in The Green line, l’opera sopra mensionata, camminando per due giorni, percorre i confini dello Stato di Israele dettati dalla guerra del 1948, segnandoli con una lunga linea verde ottenuta con lo sgocciolamento della pittura del barattolo che porta con sé durante la promenade.
La tecnica dell’attraversamento, fisico e mentale, consente ad Alÿs di conoscere a fondo le realtà in cui si muove, studiarne e decodificarne il panorama umano ed urbano e «di trasferire le tensioni sociali in una narrazione che a sua volta trasforma il paesaggio immaginario di un luogo», come dichiara lo stesso artista. Nelle sue opere è vivo il senso di transitorietà e di incompletezza, i suoi lavori sono sistemi aperti, sufficientemente ambigui da dare al pubblico infinite possibilità di interpretazione poiché una comunicazione precisa non è mai del tutto possibile. L’incomunicabilità, il difficile accesso alla piena conoscenza di realtà complesse, come quella dell’Afghanistan, è il tema dell’opera centrale della mostra partenopea: REEL-UNREEL [avvolgere–srotolare], prodotto nel 2011 per DOCUMENTA (13), è un film che mostra la capacità dell’artista di guardare nelle pieghe di una verità troppo spesso preda degli inattendibili réportage occidentali, in cui è predominante la violenza e la disumanizzazione del territorio. Interpreti del video sono alcuni bambini afgani che giocano, su e giù per le colline di Kabul, a far ruotare due cerchi con l’ausilio di un bastoncino di legno. I cerchi sono delle bobine di film che vengono arrotolate e srotolate di continuo, segnando e ridefinendo, seppure temporaneamente, quei luoghi. Una risemantizzazione spaziale, dunque, per cancellare gli stereotipi culturali offerti dai media e da quella «società dello spettacolo» profetizzata da Guy Debord. L’artista sfiora l’amnesia della violenza per puntare l’attenzione sul presente e sulla necessità di riattraversare il mondo con uno sguardo oggettivo. Così, mediante il filtro del gioco è possibile esplorare quegli spazi segnati dalla guerra, i veri protagonisti del video, ed avere una diversa consapevolezza di quell’ universo «alieno».
Ispirato dalla distruzione, perpetrata dai Talebani, di migliaia di bobine filmiche nel piazzale antistante agli archivi dell’Afghan Film, l’opera è una riflessione sull’oppressione del Regime e più in generale, sui limiti alla libertà di pensiero e di conoscenza che affligge, sotto mentite spoglie, anche molti Paesi occidentali.
L’ambivalenza della ricerca di Francis Alÿs si rivela già nel titolo dell’opera principale, infatti, le parole Reel-Unreel rinviano all’assonanza con altri due termini inglesi: Real-Unreal (Reale-Irreale) sottolineando lo slittamento tra realtà e immaginazione presente nel lavoro e in tutti gli altri che da esso derivano. Nelle sale del secondo piano del museo Donnaregina sono stati collocati grandi tavoli che presentano il processo creativo dell’opera attraverso disegni, bozzetti, progetti e collage che accompagnano il visitatore nel pensiero dell’artista. Ai muri sono fissate piccole tele, i Color Bar Paintings, su cui campeggiano vistosi rettangoli verticali di colori primari che rimandano alle barre-colore usate nella produzione televisiva, per indicare l’interruzione del segnale audio e video soprattutto nei dispositivi analogici. I colori in realtà occultano gran parte delle pitture che riproducono dei particolari del paesaggio afgano, simulando perfettamente l’interruzione della trasmissione di un «messaggio», l’evidente incomunicabilità tra Kabul, l’artista ed il resto del mondo. Tra i piccoli quadri si alternano tele monocromatiche in cui vengono decontestualizzati i colori simbolo delle divise marziali e cartoline apparentemente innocue in cui compaiono armi ed elicotteri militari, un collage di immagini reali e surreali, quasi a voler dimostrare quanto la guerra sia ormai parte della veduta.
Un lavoro politico quello di Alÿs che nasconde anche una più sottile riflessione sulla funzione dell’arte, su quanto questa possa essere uno strumento di frattura del pensiero dominante. L’artista, infatti, non dà una chiave di lettura dei fatti né individua responsabilità, ma offre una testimonianza critica che innesca un libero processo di riflessione individuale.
Francis Alÿs, REEL-UNREEL (AFGHAN PROJECTS, 2010-14), a cura di Andrea Viliani, Eugenio Viola, Museo Madre, Napoli (in collaborazione con: Centre for Contemporary Art Ujazdowski Castle, Varsavia), 14.06 – 22.09.2014
immagini (1 cover) Francis Alÿs, Reel-Unreel, 2011, Kabul, Afghanistan con Julien Devaux, Ajmal Maiwandi. Fotogramma (video-documentazione di un’azione), photo © Ajmal Maiwandi 2011 (2) Francis Alÿs, Reel-Unreel, 2011, Kabul, Afghanistan con Julien Devaux, Ajmal Maiwandi, fotogramma (video-documentazione di un’azione), courtesy l’artista; David Zwirner, New York-London (3) Francis Alÿs, Reel-Unreel, 2011, Kabul, Afghanistan con Julien Devaux, Ajmal Maiwandi, fotogramma (video-documentazione di un’azione), photo © Ajmal Maiwandi, 2011 (4) Untitled – Studio per Reel-Unreel, penna e matita su carta (5) Untitled – Studio per Reel-Unreel. Pittura ad olio su cartolina, 2011-2012 (6) Untitled – Studio per Reel-Unreel, olio su carta stampata. 2012.