Ci rivolgiamo a Giuseppe Pietroniro per cercare di comprendere meglio il valore dello «spazio» dell’arte e quello assoluto dell’opera. Nato in Canada, trasferitosi da bambino in Molise, poi in Abruzzo e infine a Roma, Pietroniro ha un’interessante carriera artistica fatta di opere e di esposizioni tanto eterogenee quanto lo è stata la realtà degli ultimi decenni. Uno scultore, fotografo, ideatore di istallazioni dentro e fuori gli spazi artistici, con un forte ascendente concettuale ma sempre fedele alla materia e all’essenza palpabile delle cose.
Fabio Giagnacovo: Rintracciare il suo medium artistico prediletto è cosa ardua – utilizza, mescolandoli spesso insieme, la fotografia, il disegno a volte geometrico, altre volte più espressivo, l’istallazione ambientale e la scultura – tanto che mi verrebbe da pensare che il suo medium prediletto sia lo spazio in sé, coordinata esistenziale ed assoluta (assieme al Tempo), vaso di Pandora di numerosissime questioni: cos’è realtà e cosa illusione nella nostra percezione, qual è il senso della materia e quale quello dell’icona, entrambe spesso in relazione nei suoi lavori, o ancora la triangolazione opera-spazio-spettatore, con tutte le sue implicazioni più squisitamente artistiche. Cosa significa lavorare su questioni così assolute e sfaccettate e come si fa a renderle tangibili, ad estrapolarne il senso che poi rileviamo, come spettatori, nello spazio artistico, ad opera finita?
Giuseppe Pietroniro: L’importanza e la scelta dei media è spesso relativa a ciò che voglio raccontare e alla direzione che voglio prendere. Trovo che sia molto stimolante la ricerca dei materiali, soprattutto quando sono eterogenei, in modo da creare un dialogo tra loro, e ciò mi da la possibilità di trovare continue varianti allo sviluppo del progetto stesso. Se posso, indirizzo la ricerca sempre su materiali nobili, perché attraverso la loro natura è più semplice approfondire il rapporto di comunicazione tra oggetto e progetto, tra spazio e limite della visione, tra il limite dello spazio e il limite della relazione tra uomo e contesto storico. Sono interessato al rapporto tra la storia e il contesto spazio-temporale in cui vivo e dove muovo energia. Ho un rapporto cosmico con il tempo e di conseguenza con la natura. Lo spazio è una dimensione sia fisica che mentale, è un contenitore entro il quale accadono tante cose, fisiche e metafisiche. Il mio tentativo è quello di «costruire togliendo», sottraendo alle forme più linee possibili. Quello che, credo, sia un valore aggiunto nella mia pratica consiste nel tentativo di raccontare una dimensione filosofica ed esistenziale attraverso l’uso di oggetti quotidiani, modificati per creare illusioni ottiche e artifici formali, maturando la giusta distanza tra idea e forma per elaborare opere che giocano con il doppio, la simmetria.
La scelta di materiali eterogenei, la puntuale messa in scena di questi lavori e l’essenzialità della loro costruzione ambigua, mi ha permesso di estrapolare dal loro contesto originale gli oggetti, snaturandoli e svuotandoli così del loro significato originale e conferendogli funzioni diverse, riassemblando la loro energia espressiva secondo una logica che risponde a precise esigenze creative. L’obiettivo finale di questi lavori installativi è sempre quello di mettere l’osservatore nelle condizioni di valutare la realtà secondo un nuovo punto di vista, secondo un’inusuale chiave di lettura, inducendolo a guardare con “nuovi occhi” anziché cercare nuove vie.
Lei una volta ha detto: «C’è stato un periodo in cui avevo la convinzione che per poter essere un artista bravo e interessante occorresse elaborare dei concetti intellettualmente forti e convincenti. Cercare però di dare una motivazione filosofica all’opera prima di farla mi bloccava, mi inibiva. A un certo punto ho dovuto fare un grande lavoro di pulizia mentale che ha coinciso con la mia collaborazione con Joseph Kosuth». Innanzitutto cosa significa collaborare con l’artista concettuale per eccellenza, un artista così peculiare come deve essere stato Kosuth? E poi: cercare una motivazione filosofica, concetti intellettualmente forti, per poi non riuscire a trovarli, non esserne soddisfatti, e desistere, è sicuramente uno dei motivi che porta i giovanissimi artisti ad abbandonare tutto e a dedicarsi ad altro, allo stesso tempo ci troviamo difronte a banalizzazioni disarmanti (mi vengono in mente gli NFT). Art after Philosophy, con i suoi 50 anni dalla pubblicazione, può ancora insegnarci qualcosa?
Kosuth ha sviluppato il suo pensiero in un determinato momento storico, che coincide con una stagione di grande fermento e cambiamento storico, politico e culturale nel mondo. Sono gli anni che precedono il «Sessantotto», la rivoluzione studentesca del 1968. La sua riflessione sull’arte contemporanea pone l’attenzione sull’autodefinizione dell’arte e l’utilizzo della parola come genitrice dell’idea che l’arte non è solo presentazione e rappresentazione ma un linguaggio. Indagare la sua riflessione artistica nel periodo in cui collaboro con lui, negli anni della mia formazione, è stato fondamentale dal punto di vista teorico-linguistico. Mi ha creato degli indotti con i quali ho intercettato che il linguaggio oltre ad essere un prodotto di un processo diventa anche strumento per accedere ai codici di lettura dell’arte. Non so quanti giovani artisti sono interessati alla ricerca di nuovi linguaggi nell’arte o alla sperimentazione di nuovi significati. Il contesto attuale è completamente diverso rispetto al contesto della mia formazione. Secondo me gli scritti teorico programmatici di Art after Philosophy, anche a distanza di 50 anni possono essere ancora vitali e influenti, sia sulla formazione di un pensiero d’avanguardia che sulla riflessione artista-opera-pubblico, che ancora oggi sembra non trovare un giusto equilibrio. Il tentativo è che ogni artista dovrebbe operare una riflessione talmente interna all’arte, alla storia e alla società, che oltre a produrre un riconoscimento dell’opera come valore dovrebbe avvicinare il più possibile il pubblico al linguaggio dell’arte.
Spesso le sue opere si posizionano al labile confine tra immagine immateriale e forma materica, a volte in termini contrastanti, come ad esempio in IN_Stability, con i quadri che su quelle pareti a dondolo in qualche modo perdono qualcosa per diventare qualcos’altro; a volte in termini simbiotici, come in Maquette Mirabilia, dove la fotografia diviene tutt’uno con la scultura e l’occhio e il corpo dello spettatore si confondono e si scambiano durante la sua fruizione. Per quanto, spesso, ci viene mostrato lo spazio digitale come un simulacro della nostra realtà analogica, essa si muove su tutt’altra percezione, tanto da poter dire che le sue opere sono assolutamente analogiche, e nella loro traduzione nella riproduzione digitale perdono sicuramente qualcosa. Cosa pensa dello spazio digitale riferito all’arte e delle nuove tecnologie come la realtà virtuale e la realtà aumentata? Ha mai pensato che queste tecnologie potrebbero essere funzionali alla sua ricerca fortemente legata allo spazio ed alla sua percezione? E, secondo lei, lo spazio digitale può essere chiamato «spazio»? O è una forzatura?
Partiamo da una considerazione: lo spazio è soggettivo, è la percezione che tu hai di un determinato luogo. Tutta l’arte contemporanea cerca di catturare lo spettatore, di coinvolgerlo emotivamente innescando un processo di riflessione, e, di conseguenza, di discussione. L’interattività del pubblico è fondamentale nelle mie installazioni, il loro intervento contribuisce allo sviluppo graduale dell’installazione. Penso che fare arte sia un modo di raccontare la propria visione della realtà usando un linguaggio diverso o addirittura inventato. L’artista esprime il proprio punto di vista e prende delle posizioni e, in base a ciò che vuole raccontare o contestare, sceglie i mezzi più opportuni. IN-Stability è un’installazione costituita da una serie di oggetti che normalmente non hanno mobilità, ma che anzi incarnano l’idea di stasi, di sicurezza, di immobilità. In particolare il progetto presenta due elementi che ho reso basculanti al fine di specificare due diversi stadi di percezione e di riflessione: le pareti di una casa, l’una arredata da quadri, l’altra praticamente vuota e il cui unico «orpello» è una porta. Mettendo a confronto due diverse funzioni della parete, l’opera nel suo insieme crea interrogazioni sui meccanismi dello sguardo, del percepire, del prendere atto di essere fisicamente di fronte a una duplice realtà che si configura come un’immagine consueta ma che, riprodotta, appare allo spettatore come visione più vera di quella reale. In questo lavoro elementi che di solito costituiscono la struttura di una casa e ne definiscono la stabilità perdono la loro funzione.
Lo spazio è qualcosa che ha a che fare con la nostra percezione mentale. Ogni cosa che immaginiamo noi la vediamo, in qualche modo esiste solo per noi, perché non possiamo farla vedere agli altri, in quel caso lo dovresti rappresentare, e per rappresentarla c’è bisogno di una «porta scenografica», uno spazio artificiale. Mi sento di dire che lo spazio digitale è uno spazio mentale ancor di più di uno spazio analogico, il monitor contiene concettualmente uno spazio che può essere un universo. Ma questo lo è anche al di là della tecnologia.
Ho visto una sua intervista, di molto tempo fa, che si può trovare su Youtube e mi sono trovato assolutamente d’accordo su tutto. Tra le diverse questioni interessanti che tocca in quella intervista, vorrei approfondirne una: la dicotomia dell’opera d’arte che se è «bella» non è «interessante» e viceversa. Oggi la bellezza svilisce l’aura dell’opera, a differenza di quanto accadeva nei secoli scorsi, e questa «bruttezza» è diventata valore assoluto di zeitgeist. È come se «Dio è morto, Marx pure e neanche l’opera d’arte si sente tanto bene», per semi-citare una frase erroneamente attribuita a Woody Allen, che in realtà è di Eugene Ionesco. Questo per chiederle: cosa significa perdere la bellezza, in una realtà di opere interessanti spesso «brutte» e incomprensibili per la grande maggioranza delle persone? Questa trasformazione percettiva del Sistema dell’Arte ha a che fare con la crisi postmoderna delle ideologie?
Secondo me una domanda che si pongono in tanti è: “Perché l’arte contemporanea spesso è brutta?” La bellezza è un concetto astratto, generalmente definita come la qualità di una cosa che viene percepita specialmente con la vista. Va distinto il concetto di «bellezza oggettiva» da quello di «bellezza soggettiva». La bellezza oggettiva è l’unica con la quale si possa impostare un discorso concreto. La bellezza oggettiva è funzione del tempo e della propria cultura, poiché tali canoni cambiano nel tempo ma restano validi per il periodo indicato. La definizione di concetti non oggettivi porta, infatti, all’influenza su di essi del gusto personale. Risulta così impossibile discutere obiettivamente su un’opera, senza essere influenzati dal proprio senso e gusto. La bellezza è soggettiva. Credo che la responsabilità della perdita di significato del concetto di «bello» non sia imputabile alla crisi del Postmoderno ma di tutta una tendenza legata all’impronta filosofica distorta nell’arte contemporanea e all’abuso improprio del termine «concettuale» per giustificare lavori deboli formalmente e privi di contenuti. Naturalmente è tutto molto soggettivo, le emozioni sono personali. Gli artisti, probabilmente, in questo momento, sono gli unici che hanno la grande responsabilità di poter rallentare i contenuti dell’immagine attivando un atteggiamento più riflessivo, e facendo vedere le cose da un altro punto di vista potrebbe essere una soluzione.
Lei ha svolto – e sta svolgendo – attività di docenza in diverse Accademie di Belle Arti in Italia, come professore di Scultura. Cosa significa formare un artista dal suo punto di vista? E come si fa ad aiutare un ragazzo che si sta formando in ambito artistico a far diventare quest’ambito la sua professione e non semplicemente un bell’hobby fine a se stesso?
L’Accademia è il luogo in cui storicamente le arti si incontrano, dove avvengono interazioni multidisciplinari e confronti diretti tra le varie ricerche sulla realtà, con lo scopo di verificare e stabilire punti di contatto e produrre una crescita culturale, attraverso il linguaggio artistico. In quest’ottica il tentativo è quello di far sviluppare agli allievi – attraverso la ricerca artistica – una coscienza critica sull’indagine della realtà attraverso lo studio del contesto storico-spaziale di appartenenza, inteso anche come luogo fisico, all’interno del quale avvengono relazioni e rispetto al quale lo studente si posiziona con un individuale punto di vista sempre diverso e, di conseguenza, interpretare tutte le relazioni che in esso avvengono in termini culturali. La dinamica contemporanea delle relazioni è posta sotto il regime del web anche nell’ambito dell’arte: un mondo che proietta un giovane artista verso una fitta rete di connessioni dalle infinite combinazioni, un congegno che crea spazi virtuali imitando la realtà. Tuttavia, i limiti di questa realtà effimera risiedono proprio nella mancanza di conoscenza delle pratiche di lavoro e di uno scambio reale tra le parti che si mettono in relazione. L’obiettivo potrebbe essere proprio quello di fornire agli studenti gli strumenti necessari, teorico-pratici, per affrontare la professione artistica come un’operazione reale di interscambio per la costruzione della propria carriera.
Immagini (cover – 1) Giuseppe Pietroniro, Illustrazione di Nikla Cetra (2) Interno Spazio Gerra,2009,ReggioEmilia, 150x 250 cm, foto Archivio Pietroniro (3) È come se nulla fosse.. MACRO Roma, 2015. Installazione Ambiente, Foto Giorgio Benni, Courtesy Archivio Pietroniro (4) IN_Stability, 2021, Acciaio Spechiante, Dimensione Ambiente, Courtesy Archivio Pietroniro (5) Installazione Ambiente, 2023. 300 x 1000 cm.Museo Michetti Francavilla (CH) Foto Roberto Apa, Courtesy Archivio Pietroniro (6) Modulopinto,190 x 190 cm Foto Roberto Apa, Courtesy Archivio Pietroniro
Survive the Art Cube è una serie di conversazioni con artisti di diverse generazioni curata da Fabio Giagnacovo. Il titolo riprende il più famoso libro di Brian O’Doherty a volerne ricalcare il piglio critico. Ha il fine di comprendere meglio come questi artisti percepiscono lo spazio analogicodigitale in cui siamo immersi e la nostra contemporaneità, che senso e che importanza ha lo spazio artistico oggi e che senso ha nel nostro presente fare un percorso artistico. I tempi cupi impongono una riflessione sulla realtà e solo gli artisti, forse, possono aprirci la mente:
Interviste precedenti:
Intervista a Francesca Cornacchini, Arshake, 14.11.2023
Intervista ad Enrico Pulsoni, Arshake, 09.11.2023
Intervista a Marinella Bettineschi, Arshake, 15.10.2023