Testimoni dell’invisibile è il termine con cui Jean-François Lyotard identificava gli artisti come coloro in grado di interagire con l’immateriale e di dargli forma, in occasione della sua storica mostra al Centre Pompidou di Parigi, Les Immatériaux (1985). I Testimoni dell’invisibile ritornano nel progetto di Valentina Gioia Levy, tra i sei invitati alla Biennale di Dakar. Saranno i lavori di Chai Siris (Tailandia), Emo de Medeiros (Francia/Benin), H.H.Lim (Malesia), Stefano Canto (Italia) ad attivare l’immaginazione per materializzare l’invisibile, in particolare quello che si nasconde tra le maglie del tempo che dimentica, dell’informazione, dei moderni codici linguistici che creano continuamente spazi e tempi. Abbiamo intervistato la curatrice per approfondire le ragioni delle scelte e tutto quanto concerne l’obsolescenza della tecnologia e della cultura che il progetto porta in primo piano.
Ci puoi raccontare come è nato il progetto e come si pone all’interno della Biennale di Dakar?
Il direttore artistico, Simon Njami, ha chiamato sei curatori internazionali per selezionare dai 3 ai 5 artisti, possibilmente provenienti da aree geografiche differenti, il cui lavoro fosse in linea con il tema della biennale. Io e i miei colleghi siamo stati invitati ad elaborare una selezione su un argomento che ci sembrava pertinente con quello scelto da Njami e il nostro lavoro è stato poi presentato presso il Museo dell’Arte Africana di Dakar (IFAN – Institut Fondamental d’Afrique Noire). La mia scelta, dal titolo I Testimoni dell’Invisibile, si è orientata su un aspetto che ho sempre considerato molto interessante, ovvero, la relazione tra visibile e invisibile a proposito di cui lo stesso Simon scrive: “La sfida per l’artista è di ricordarsi che tra i doni a sua disposizione, esiste quello di comunicare con l’invisibile. Di trasformare, secondo la formula di Henri Delacroix, il visibile.” Nella ridefinizione di questa relazione, che per estensione interessa anche il legame tra materiale e immateriale, reale e virtuale, corpo e spirito (inteso come aggregato psico-fisico) la tecnologia gioca, oggi, un ruolo fondamentale.
Quali sono stati i tuoi criteri di selezione degli artisti e dei lavori?
Il direttore artistico mi ha invitata soprattutto per il fatto che la mia ricerca curatoriale è focalizzata sull’Asia. In quanto orientalista di formazione, mi interesso da sempre non solo alle scene artistiche di questo continente, ma anche in generale alle relazioni tra oriente e occidente, tra nord e sud del mondo. Ho invitato per tanto due artisti asiatici H.H. Lim (Malaysia) e Chai Siris (Tailandia) la cui ricerca si orienta spesso su temi coerenti con l’argomento che intendevo trattare e ho chiesto loro di elaborare un’idea specificatamente per questa Biennale. Mentre ho scelto Emo de Medeiros e Stefano Canto in funzione di lavori specifici che conoscevo già: Surtentures, Vodoonaute e Electrofetiche per il primo; il progetto Structure, che non era ancora stato realizzato, per il secondo. Si tratta di lavori che esplorano la relazione con l’invisibile, quelli di de Medeiros ruotano intorno alla dimensione magica dell’esistenza, mentre il progetto di Canto, di cui è parte integrante la performance realizzata in collaborazione con la coreografa afro-italiana Ashai Lombardo Arop e il corpo di ballo della scuola di danza Artea, Marianne Noix di Dakar, si focalizza sul corpo e su un ripensamento della fisicità come luogo in cui materiale e immateriale si incontrano.
Molti dei lavori si relazionano con l’obsolescenza della tecnologia, ma anche della cultura. Nel panorama socio-politico di Dakar con quali aspetti della cultura locale si sono confrontati i lavori?
I lavori in mostra in realtà non si legano con la realtà specifica del Senegal, anche perché non era questo che ci era stato richiesto, ma piuttosto il contrario. Lo scopo di Njami nel convocare sei curatori provenienti da diversi paesi era proprio quello di portare un punto di vista diverso, più internazionale, all’interno della Biennale ufficiale. Dell’obsolescenza della tecnologia, nel caso specifico i vecchi cinema all’aperto molto popolari in Tailandia negli anni ’80, si interessa Chai Siris che sottolinea come questa possa diventare, una volta svuotata delle sue originarie funzioni, qualcosa di simile ad un feticcio. Questo è proprio uno dei temi che tratta nel suo lavoro video The Man Who Waits 500,000 Years for this Song. La tecnologia viene associata al soprannaturale non solo nel lavoro di Siris, ma anche in quello del franco-beninese Emo de Medeiros, che ne fa uno dei suoi campi di indagine preferiti.
Tradizione artigianale, credenza popolare, storia e memoria nei lavori selezionati si intrecciano in un discorso e un fare artistico che porta assieme tradizione e modernità…Quale è stata la risposta di pubblico e stampa ?
Molti dei lavori di Emo de Medeiros ruotano intorno a un tentativo di riattivare attraverso l’uso della tecnologica, antiche tradizioni artistico-manifatturiere beninesi usate in ambito cultuale come nei suoi Elettro-Feticci in grado di interagire con gli smartphones dei visitatori e inviare loro dei messaggi. Il feticcio, strumento tradizionalmente usato per stabilire una connessione con l’invisibile, si adegua ai tempi e fa proprio il metodo di comunicazione più diffuso a livello globale, l’sms.
Mentre nel caso del lavoro di H.H.Lim la riflessione è piuttosto orientata sugli effetti di queste tecnologie sul nostro quotidiano. In particolare l’artista si focalizza sul flusso continuo di immagini e informazioni che ci investono quotidianamente e sull’indifferenza che esse ormai producono sull’osservatore. Lim ha messo insieme decine di immagini di città distrutte da bombardamenti e catastrofi naturali per creare un pachwork di rovine che poi ha stampato su un tessuto con il quale è andato a rivestire un divano, un tavolo e un tappeto, ricostruendo il salotto di una casa tipo. Un lavoro che invita davvero a riflettere su come è cambiato il nostro approccio all’immagine, ma anche la percezione del luogo, reale e virtuale, vicino e lontano.
L’attenzione della stampa e del pubblico internazionale è sempre molto alta nei confronti della biennale di Dakar che è una delle più importanti manifestazioni internazionali dedicate alla creazione artistica africana, ma su questa speciale edizione curata da Simon Njami c’erano particolari aspettative. Nonostante i ritardi e le problematiche tecniche, a giudicare dalla qualità delle recensioni già pubblicate penso che queste aspettative siano state completamente soddisfatte.
Testimoni dell’invisibile, a cura di Valentina Gioia Levy, within “La Cité dans un Jour Bleu”, Dak’Art 2016, 12th Edition of the Dakar s Biennial, diretta da Simon Najami, Museum of African Art – Théodore Monod, Institut Fondamental d’Afrique Noire, Dakar, Sénégal, 03.04 – 03.06.2016
immagini (cover 1-2) Performance per l’installazione di Stefano Canto, Structures”, choreographia di Ashai Lombardo Arop, 2016 at Testimoni dell’Invisibile within “La Cité dans un Jour Bleu”, Dak’Art 2016 (3) Testimoni dell’Invisibile within “La Cité dans un Jour Bleu”, Dak’Art 2016, exhibition view (4-5) H.H.Lim “Living Room” 2016, installation, variable dimensions