Federica Di Carlo muove il suo lavoro sempre sul filo intrecciato dell’estetica e della scienza. Quanto l’arte può accostarsi all’esperimento e quanto l’osservazione (scientifica?) è alla base dell’opera d’arte? Le sue installazioni ambientali sono caratterizzate da una dinamica straniante, sempre complessa ma mai oscura. Con lei cerchiamo di capire meglio proprio il rapporto dell’arte contemporanea con la ricerca scientifica. Ascoltare Di Carlo significa aprirsi ad una mediazione che non è scontata, significa percepire le sfumature umanistiche della tanto strutturata scienza, così come quelle più scientifiche che vanno ad allacciarsi alla tanto aerea estetica.
Fabio Giagnacovo: Le tue opere amalgamano sempre l’estetica (la scienza delle sensazioni, ha detto qualcuno) con la scienza (il risultato delle operazioni del pensiero, nella sua definizione più generica). Anche solo così possiamo notare una connessione tra questi due enormi ambiti umani esistenziali, spesso visti agli assoluti antipodi. Viene un po’ da pensare al pensiero che da un lato si fa spirito e dall’altro materia, e queste due forme, insieme danno senso al pensiero stesso, chiudendone il cerchio. È impossibile non definire “artisti” i più grandi scienziati del passato, così come molti artisti, a partire da Leonardo fino ai giorni nostri, sono in qualche modo “scienziati”. Cosa significa lavorare contemporaneamente su queste due concezioni dell’esistenza, così simili eppure così diverse? C’è un processo di mediazione? Non ti senti sopraffatta dalla complessità delle cose, che, appunto non sono puro spirito così come non sono pura materia?
Federica Di Carlo: La ricerca dell’assoluto credo che sia da sempre una forma che sia gli scienziati che gli artisti inseguono e forse sono proprio queste due distinzioni che creano questa confusione.
Essere sopraffatti da quello che vediamo attorno a noi è necessario ed è un atto di espansione della conoscenza, è un atto vitale verso il quale io mi sento spinta costantemente e verso il quale vedo spingersi anche loro attraverso il linguaggio scientifico.
Lavorare su queste due cose in realtà è un processo naturale, perché queste due cose coincidono, non sono separate, entrambe puntano il loro sguardo verso la natura, verso la contemplazione, verso la vitalità del mondo, la vitalità dell’universo .
È una scintilla che secondo me ci portiamo dentro dalla nascita della specie umana e che semplicemente abbiamo un po’ anestetizzato ma che è fondamentale per la nostra vita.
Seguendo la domanda precedente e diventando un po’ più specifici: lavori spesso attraverso l’istallazione ambientale, con media sempre diversi. Esse sono governate dalle affascinanti “leggi della natura”, come ad esempio dai segreti della luce, ma allo stesso tempo trovano senso negli occhi e nel corpo del visitatore che le vive, senza mai essere neppure lontanamente didascaliche. Pur basandoti su concetti scientifici ed esperimenti di portata incredibile sembra che prediligi sempre l’essere al sapere, il valore puramente scientifico delle cose si disperde nel valore culturale pur rimanendone fortemente caratterizzante. Quel è il processo significante che porta a questo risultato che se da una parte è straniante dall’altra appare incredibilmente naturale (o forse sarebbe meglio dire: incredibilmente umano)? In che misura, secondo te, il progresso scientifico ha a che fare con l’antropologia?
Prediligo l’esperienza, prediligo l’emozione al sapere per come me lo stai ponendo tu ora.
L’esperire qualcosa attorno a noi è il processo anche immaginativo con il quale arriviamo al sapere.
Quindi in realtà io parto da spunti legati alla fisica della natura, alle regole del mondo solo come punto di partenza per parlare di come si trasformano le nostre emozioni nello stare al mondo.
Non sto spiegando la scienza, non la voglio spiegare, si spiega benissimo da sola.
Cerco anzi di ricordare che noi siamo elementi uniti con il tutto, ricordarci che quando ci alziamo in piedi e camminiamo stiamo sperimentando la gravità e poi sperimentiamo la gioia del poter correre, giocare con gli altri; è tutto profondamente e indissolubilmente legato, quindi sì , ha assolutamente a che fare con l’antropologia. Ogni scoperta scientifica, ogni scoperta visiva, anche fatta degli artisti ha creato un sistema di cambiamenti a catena che hanno portato un’evoluzione, o un’involuzione a volte, della società.
Questa è la storia dell’uomo da sempre.
Ho l’impressione che questo nuovo tempo si sia dimenticato che l’agire ha necessariamente una conseguenza, che ogni azione o non azione produce un cambiamento e in questa apatia io penso che l’arte come la scienza ancora abbiano un ruolo emotivo cruciale.
E che non debbano però farsi sfruttare dal concetto di potere o dagli alti sistemi che da sempre la le hanno utilizzate a loro piacimento per esercitare sulla propria specie un falso dominio.
Una volta hai detto: “ Penso che siamo entrambi in missione, scienziati e artisti, con lo stesso scopo, capire, conoscere, perché siamo qui, perché proviamo delle cose, quali sono gli equilibri che ci fanno stare al mondo. Ognuno dei due mondi porta il suo contributo in modi diversi”. Ti sei trovata spesso a collaborare, da artista, con degli scienziati, facendo, in qualche modo, sovrapporre questi due mondi diversi. Qual è il rapporto umano che si instaura tra i fautori di questi mondi? E, dalla tua esperienza, come si posiziona l’uomo di scienza nei confronti dell’arte contemporanea?
Il mio rapporto con gli scienziati e con il mondo della scienza è sempre stato per la maggior parte delle volte molto accogliente, credo che ci siano scienziati più aperti alle ibridazioni, alle contaminazioni, e scienziati invece rinchiusi nei loro compartimenti stagni; in base a chi incontri puoi trovare una via o un vicolo cieco. Quando si incontra una via, quando si ha un incontro anche animico con uno di questi momenti e queste persone, si crea veramente uno scambio proficuo.
Si pensa che lo scambio debba avere immediatamente una utilità in termini di materia, di forma, e spesso e volentieri è così, nel senso che gli scienziati mi forniscono come artista una soluzione tecnica a un’opera; altre volte invece lo scambio senza materia è molto più importante e intenso.
Quando i discorsi si spingono fino al limite di queste possibilità tecniche, quando insisto con loro su qualcosa che mi dicono non si può fare… entrambi ci aiutiamo a scoprire una nuova possibilità che non rientrava negli schemi prestabiliti né dell’uno né dell’altro.
Viviamo in una società estremamente tiepida ideologicamente, disinteressata e livellata su un orizzonte comune spesso incoerente. Su alcuni temi, invece, c’è una polarizzazione incredibile e grottesca, e sto pensando proprio alla scienza. Se da una parte il negazionismo dilagante arriva a proporre una pericolosa visione del mondo antiscientifica, dall’altra troviamo una vera e propria fede nei confronti della scienza, con i suoi dogmi, dimenticando che, come tutte le pratiche umane, essa è fallibile e sempre mediata dall’azione e dal pensiero umano, è impossibile per noi ragionare sulla pura assolutezza – continuando con le similitudine: anche l’arte contemporanea vive questa estrema polarizzazione. Inoltre, non è così solo in termini in qualche modo “teorici”: anche nella pratica da una parte troviamo un certo ritorno alle origini legate alla crisi climatica ma più in generale alla crisi dell’uomo contemporaneo, dall’altro, per citare l’esperimento che riecheggia nel tuo progetto Volevo il Sole, il tentativo – quasi divino – di fusione nucleare per ricreare un Sole artificiale sulla Terra. Qual è il tuo pensiero al riguardo?
Volere il sole, cercare di affrancarsi da quello che ci tiene in vita è già di per sé un’azione che determina una crisi e questa crisi é la crisi dell’umanità; è la crisi della società.
Società, arte, scienza sono solo parole inventate da questa specie umana per credere di essere una specie diversa, separata, superiore, rispetto a quella animale o vegetale e ci porta a commettere errori gravissimi.
Il fatto di creare cultura, produrre cultura, di fare arte, creare ingegno, tecnologia, strumenti che ci permettano di vivere sempre meglio, a volte, e quindi fare scienza anche, ci ha portato, a volte, a sbagliare gli equilibri, le calibrazioni di questo agire, e a quale prezzo.
E’ come se cercando di essere Dio ci fossimo dimenticati che se siamo Dio, allora dobbiamo stare in armonia con tutto il resto. Siamo chiaramente di fronte a un passo dell’evoluzione o involuzione, è un passo, forse usiamo anche un termine estremo, verso l’estinzione.
Perché siamo l’unica specie che gioca e manipola tutta la materia possibile contenuta dentro questa sfera celeste che ci ha regalato la vita; una specie anche ingenua in qualche modo e che sembra non imparare da gli errori precedenti. Questa è la cosa che mi stupisce tutt’oggi e che vedo anche all’interno dei sistemi scientifici dove sono gli scienziati i primi a dire che loro non sanno tutto, che non possono essere certi che quando accenderanno il loro “sole” sulla terra tutto sarà in sicurezza.
Questo ritorno alla sacralizzazione della scienza è colpa soprattutto della manipolazione delle informazioni da parte dei media , per audience, per fare numeri, niente di più vecchio eppure oggi molto più pericoloso rispetto a ieri a causa dei social, dell’intelligenza artificiale. Il covid è stato un esperimento ben riuscito, farci credere che tutto era sotto controllo perché la scienza era un un luogo estremamente sicuro; niente di più distante, la scienza come l’arte nasce dagli errori, da ripetuti fallimenti, e deve farli per progredire.
O come il film Oppenheimer, che ci ha ricordato che per fare una bomba atomica, scienziati o scienziate come Marie Curie si sono contaminati ingenuamente con le radiazioni per poi morirne.
Quello che noi non vediamo non vuol dire che non stia agendo su di noi e quindi credere che la cultura o la scienza siano qualcosa da usare e poi gettare all’occorrenza, è sicuramente il più grande errore dell’umanità al momento.
Hai frequentato diverse Accademie di Belle Arti (Roma, Bologna, Barcellona) e hai vissuto diverso tempo in alcune delle più importanti città europee. Poco tempo fa, in Italia, invece, hai vinto l’Italian Council, sezione ricerca. In questo tuo andare e tornare hai notato qualche importante differenza nella formazione artistica e, più in generale, nel sistema-arte, tra l’Italia e gli altri paesi europei? Il deserto di sale post-laurea (pardon.. post-diploma..) è una prerogativa italiana o è così che va il mondo?
Continuo sicuramente a vedere una distanza tra noi l’Europa, l’America, o comunque tutti quei paesi che ancora e sempre hanno considerato la cultura, l’arte contemporanea come un patrimonio e come anche un valore economico per il loro paese. Noi questo non lo facciamo e non vedo al momento grandi segni di miglioramento, tranne piccoli fuochi accesi appunto dagli artisti che dopo il covid si sono resi conto di essere totalmente invisibili agli occhi dello Stato, di non avere minimamente un ruolo nella società, nonostante le opere che producono in vita o in morte riempiono queste scatole vuote che sono i musei, ma purtroppo però questo è principalmente un problema italiano.
Però credo anche che se questo non è mai cambiato è perché non abbiamo analizzato la nostra parte di errore o la nostra componente che non ha generato cambiamento; credo che questo dipenda dal fatto che gli artisti sono estremamente sottomessi a tutte le dinamiche del mondo dell’arte, del sistema “arte contemporanea”, ma questo anche nei musei moderni che sono sottomessi alle dinamiche politiche. Vedo artisti non darsi il giusto valore, poi certo, altri che si danno valori assurdi.
Ma non è possibile che oggi i musei non abbiano un regolamento interno che preveda d’obbligo che gli artisti vengano pagati perché sono ingaggiati con le loro opere a fare una mostra. Non esiste un albo degli artisti, un albo dei curatori, il nostro ministero dedicato a questo settore, adesso col nuovo governo sta per essere di nuovo reso invisibile o accorpato ad altre tipologie di ministeri.
Mentre quelli dello spettacolo scendevano in piazza noi non lo facciamo perché non è elegante. Che grande opportunità abbiamo perso.
Ripenso alla biennale di Venezia del 68’ quando gli artisti scioperarono e coprirono le loro opere. Se siamo costantemente spaventati di non essere visti abbastanza allora ce lo meritiamo tutto questo.
Se non cambiamo noi il sistema, il sistema non si cambierà vista la politica attuale che ha vinto e che continua a avere molto più consenso di quella precedente che forse non è stata molto brillante.
Immagini (cover – 1) Federica Di Carlo, Illustrazione di Nikla Cetra (2) Federica Di Carlo, Flow, Villa Galileo, Firenza, 2023, ph. Jacopo Nocentini (3) Federica Di Carlo, We Lost The Sea, Arsenale della Marina Regia, Palermo, 2018, ph. Lorenzo Bacci (4) Federica Di Carlo, Volevo il Sole, Galleria PostmastersROMA, ph. Giuliano Del Gatto (5) Federica Di Carlo, Vivo alla Ceramica, Ex-fabbrica Pagnossin, Treviso, 2019, ph. Giacomo Vidoni (6) Federica Di Carlo, Come in Cielo, Così in Terra, Serlachius Museum, Finlandia, 2018 (7) Federica Di Carlo, Illustrazione di Nikla Cetra
Survive the Art Cube è una serie di conversazioni con artisti di diverse generazioni curata da Fabio Giagnacovo. Il titolo riprende il più famoso libro di Brian O’Doherty a volerne ricalcare il piglio critico. Ha il fine di comprendere meglio come questi artisti percepiscono lo spazio analogicodigitale in cui siamo immersi e la nostra contemporaneità, che senso e che importanza ha lo spazio artistico oggi e che senso ha nel nostro presente fare un percorso artistico. I tempi cupi impongono una riflessione sulla realtà e solo gli artisti, forse, possono aprirci la mente:
Interviste precedenti:
Intervista Giuseppe Pietroniro, Arshake, 07.12.2023
Intervista a Francesca Cornacchini, Arshake, 14.11.2023
Intervista ad Enrico Pulsoni, Arshake, 09.11.2023
Intervista a Marinella Bettineschi, Arshake, 15.10.2023