Arshake pubblica, oggi, la quarta di cinque parti del progetto di ricerca sulle Macchine Inutili di Bruno Munari, nato dalla collaborazione tra Luca Zaffarano e il fotografo Pierangelo Parimbelli che ha realizzato le immagini inedite che accompagnano il testo.
> Bruno Munari e le Macchine Inutili. pt I (Arshake, 12 marzo, 2014); > Bruno Munari e le Macchine Inutili, pt II (Arshake, 19 marzo, 2014), > Bruno Munari e le Macchine Inutili Parte III (Arshake, 25 marzo, 2014).
Bruno Munari e le Macchine Inutili. La casualità.
Munari negli anni trenta e quaranta realizza diverse Macchine Inutili con materiali poveri, organici e leggeri, talvolta inusuali: cartoncino, legno, un guscio di zucca, rotelle, fili di cotone, vetro soffiato, una piuma. Successivamente utilizza materiali di natura tipicamente industriale: alluminio, plastica, fili di acciaio, metallo. Il concetto di leva e di macchina elementare viene impiegato per fornire un equilibrio programmato ad una composizione astratta che per paradosso si muove invece casualmente, sollecitata anche dalla più debole corrente d’aria.
Munari intuisce che un cinetismo troppo meccanico, troppo ritmico, non spezzato dall’azione del caso finisce per tramutarsi in un vacuo decorativismo. Per questo egli si preoccupa di sfruttare la casualità che, analogamente a quanto avviene in natura, viene utilizzata per demolire un rigore talvolta troppo razionale. Lo storico Enrico Crispolti [1] ci ricorda una importante dichiarazione di Munari: «voglio andare a vedere che cosa c’è oltre l’arte astratta, non credete che queste esperienze si superino tornando indietro».
Munari sintetizza in uno slogan (la regola e il caso) la formula necessaria ad allontanare l’arte astratta concreta da una freddo rigore algoritmico che induce molti artisti, anche molti dei compagni di viaggio del M.A.C. (Movimento Arte Concreta), a ripetersi inutilmente.
L’arte e la fantasia, la progettazione e l’imprevisto, sono due opposti fondanti che spingono molti artisti negli anni ’60, ad indirizzarsi verso la creazione di oggetti di arte cinetica in cui il caso è una variabile fondamentale del progetto. L’idea in realtà è semplice, nasce dalla comprensione teorica che solo dall’equilibrio tra l’evento casuale (o, in altri contesti intellettuali, dallo stimolo della fantasia o della serendipità) e la programmazione (la razionalità del pensiero) si può ottenere il massimo di espressività, attraverso un dinamismo di forze opposte che è forse la costante di maggior rilievo in tutta l’opera dell’autore, fin dai tempi della sua militanza, evidentemente poco ortodossa, all’interno del movimento futurista.
Le Macchine Inutili sono la testimonianza di un lungo processo intellettuale teso al raggiungimento di una sintesi teorica tra la necessità di darsi delle regole generative e, dall’altra, l’esigenza contrastante di rompere la regola, per esempio utilizzando le correnti d’aria, l’umidità o il calore, la forza elastica, l’attrito.
Bruno Munari e le Macchine Inutili. Lo spazialismo.
Abbiamo evidenziato nelle riflessioni precedenti come la ricerca di immagini in trasformazione dinamica, attraverso il movimento, sia una costante presente in molte sperimentazioni visive di Munari. Allo stesso tempo l’autore sviluppa, fin dagli inizi, costruzioni pittoriche nel campo ambientale. [2] Avviene in primis negli anni trenta con le Macchine Inutili, poi negli anni quaranta con la serie di opere denominate Concavo-Convesso, e successivamente, nei primi anni cinquanta, con le Proiezioni dirette e con le Proiezioni polarizzate.
Il parametro spazio entra in gioco come una variabile estetica, espressiva e compositiva. Lo spettatore viene assorbito all’interno di un ambiente multidimensionale in cui il risultato estetico è in funzione di variabili spaziali, temporali, illuminotecniche, aeree, termiche. Basta una debole corrente d’aria, il calore di una lampada, la presenza di uno spettatore, la variazione di colore di una fonte luminosa per perturbare l’ambiente, generando forme spettacolari in continua variazione.
Nei fotogrammi proposti lo sguardo sulla composizione è portato dal fotografo il più possibile vicino all’evoluzione degli elementi della macchina, fornendo al lettore quella sensazione spaziale che prova chi si trova nell’ambiente di installazione di una Macchina Inutile, all’interno del suo raggio d’azione.
Bruno Munari e le Macchine Inutili. L’installazione.
Il critico Gillo Dorfles, tra i fondatori dell’eterogeneo gruppo del Movimento Arte Concreta, ha definito Munari un creatore di oggetti, di eventi e di ambienti [3]. Nelle installazioni, cioè nella collocazione spaziale di una Macchina Inutile, anche l’ombra, la parte meno visibile e più evanescente di ogni singolo elemento della macchina, è per Munari importante, perché guida lo spettatore verso un mondo di immagini astratte riverberate dall’ambiente ospitante.
Forse il modo più corretto per «contemplare» una Macchina Inutile è simile a quello di chi ascolta attentamente un suono all’interno di un ambiente. Il suono infatti arriva dalla fonte emittente in modo diretto, ma anche in modo indiretto, ovvero riflesso, riverberato, parzialmente filtrato e assorbito, in base alle caratteristiche strutturali (di materiale) e geometriche dell’ambiente in cui viene prodotto.
In modo del tutto simile le Macchine Inutili, immerse in uno spazio neutro, illuminate da luci la cui intensità, direzione e colore sono variabili, generano sia immagini astratte dirette, attraverso l’osservazione degli elementi mobili della macchina, sia immagini derivate, create dalle ombre o dalle rifrazioni di queste ultime tra di loro. Le ombre cambiano in funzione della illuminazione ed hanno di conseguenza nitidezza, forma e colore variabili.
L’installazione di una Macchina Inutile definisce un ambiente. All’interno di questo perimetro lo spettatore entra in contatto con le geometrie astratte della macchina e con le rifrazioni delle forme modificate dall’ambiente. I fotogrammi che abbiamo selezionato mostrano proprio questo dialogo che, quando ben orchestrato, risulta proficuo ed esteticamente interessante.
Con la mostra «Bruno Munari Politecnico», La città di Milano e il Museo del Novecento dedicano, a partire dal 5 Aprile, 2014, una retrospettiva a questo artista poliedrico e visionario. In questa occasione, e partendo dalla sua serie di «Macchine Inutili», Luca Zaffarano traccia un ritratto a tutto tondo dell’eclettico Bruno Munari che Arshake pubblica in cinque parti, con cadenza settimanale. Le Macchine Inutili diventano filo conduttore di un racconto che si ricollega alle molteplici sfaccettature dell’artista, illustrato da fotografie inedite scattate daPierangelo Parimbelli.
[1] Enrico Crispolti, Il caso Munari, in NAC Notiziario Arte Contemporanea, n. 25, Milano, 1969
[2] Luciano Caramel (a cura di), M.A.C. Movimento Arte Concreta, Electa, Milano, 1984, p. 14
[3] Gillo Dorfles, Una estrema celebrazione per l’arte cinetica, in Gillo Dorfles, Inviato alla Biennale, Scheiwiller, Milano, 2010
immagini
(1 cover, 2, 3) Bruno Munari, Macchina Inutile (1945-1995), il caso, l’imprevisto, la macchina si muove sollecitata anche dalla più debole corrente d’aria, fotografie di Pierangelo Parimbelli. (4, 5) Bruno Munari, Macchina Inutile (1956-1968), lo spazio diventa variabile estetica, espressiva e compositiva, fotografie di Pierangelo Parimbelli. (6, 7) Bruno Munari, Macchina Inutile (1951-1993), le ombre cambiano in funzione della illuminazione ed hanno nitidezza, forma e colore variabili, fotografie di Pierangelo Parimbelli. (8) Bruno Munari, Macchina Inutile (1945-1995), immagini astratte dirette e immagini derivate, create dalle ombre e dalle rifrazioni, fotografie di Pierangelo Parimbelli.