La ricerca di Elena Giulia Abbiatici sulla politica del rumore nelle pratiche artistiche dell’ultimo secolo prosegue in dialogo con Abinadi Meza, artista e regista il cui lavoro fa riferimento alla percezione spaziale e temporale, alla politica e alla trasformazione.
Elena Giulia Abbiatici: Hai lavorato molto sull’hacking e sulle incursioni radiofoniche, quindi sulla interferenze e sovrapposizioni di suoni che creano una cacofonia sonora prossima al rumore. Queste azioni clandestine si inseriscono nel concetto di noise come rumorio di fondo costante nella pratica della disinformazione, della confusione comunicativa refrattaria alla chiarezza, quindi alla verità. Quanto possiamo parlare di rumore come pratica sociopolitica che procede, senza la preoccupazione di voltarsi indietro, verso una psicofollia collettiva, dovuta a fake news e sovraccarico informativo e processi in cui le posizioni politiche che si delineano sono sempre più polarizzanti?
Abinadi Meza: Sì, questa è una questione enorme – certamente il rumore può comportare disorientamento e persino violenza o dolore, ma penso che questo dipenda molto dalle specificità di temporalità e intensità. Penso che brevi raffiche di rumore tollerabile possano «resettare» il proprio corpo, la propria modalità cognitiva o neurale; possono mettere a fuoco il corpo e il mondo, riattivare e rivitalizzare le cose. Questo è probabilmente il motivo per cui le persone trovano piacevoli alcuni tipi di rumore come la musica noise, la musica drone, il thrash o lo speed metal, e altri le pacifiche macchine per il rumore bianco che aiutano a concentrarsi o a dormire. Il problema con il rumore involontario, l’inquinamento acustico, gli attacchi di rumore del mondo, è che non cessa mai, non c’è rilascio. Questo tipo di rumore persiste oltre i punti naturali di esaurimento. Quando faccio performance sonore dal vivo, dato che uso spesso elementi di rumore, a-tonalità, caos e suoni concreti, faccio molta attenzione al rilascio – quando rilascio la pressione o l’intensità, ciò permette al corpo di godere di ciò che lo ha appena attraversato, o che lo ha appena avvolto. Deve finire, anche se per ripartire.
Dal punto di vista politico, la radio clandestina e pirata comporta un altro tipo di rumore, come un intervento o un’ interruzione. Si tratta di rumore in un senso più metaforico, forse, come sovversione o ribellione contro una forza dominante; dirottare una narrazione dominante per introdurre qualcosa di diverso, per fratturare la coerenza dominante, per bucarla. Nel lavoro di cui hai scritto, Air Condition, ho visto le trasmissioni radiofoniche come una sorta di perforazione percettiva – volevo aprire una porta sonora tra le macrosoniche «invisibili» dello spazio urbano, ciò che ci circonda ma che la maggior parte di noi non sente, e i nostri spazi di ascolto personali, dove potremmo ascoltare la radio, nella nostra cucina, soggiorno, auto, ecc. Si trattava dell’aria, di come l’aria è piena di informazioni che non sempre percepiamo. COVID19 ci ha anche reso consapevoli dell’aria, e di ciò che la abita, visibile e non.
Cosa ha significato per te lavorare sull’hacking radiofonico a Baltimore, sotto un cielo pieno di interferenze visive e sonore? E che differenza hai incontrato e puoi raccontarci fra il paesaggio sonoro a Baltimore dove hai presentato Ghost Station e il paesaggio sonoro di Huston, Texas, dove hai presentato Air Condition?
Entrambe sono grandi metropoli urbane, e per coincidenza entrambe sono anche città portuali; l’umidità dell’aria amplifica effettivamente l’intensità dell’elettro-soundscape, perché c’è più «materiale» per trasportare le onde. Ma ad essere onesti la maggior parte di ciò che ho sentito nell’etere di queste città potrebbe essere chiamato trauma. Chiamate e risposte della polizia, dei vigili del fuoco e delle ambulanze – colpi d’arma da fuoco, furti denunciati, incendi, richieste d’aiuto mediche, stati d’emergenza o problemi. C’erano anche suoni strani e anomali – allarmi molto strani, bip, toni, ecc. Questo potrebbe avere a che fare con il tempo, la tecnologia di navigazione o radio-controllo, o altri elementi del nostro mondo elettromagnetico. Prima di iniziare questi interventi alla radio pirata, ho fatto un progetto chiamato [Silence.] a Dublino come artista in residenza al Museo irlandese di arte moderna.
Lì ho usato attrezzature bio-acustiche specializzate per scansionare le frequenze ultrasoniche della città, il paesaggio sonoro sopra la soglia dell’udito umano – il nostro silenzio. Ma questo mondo sonoro è abitato da molti esseri viventi, anche dai nostri familiari, come i cani. Mi dispiace per tutte queste creature perché abbiamo inquinato l’aria e il loro paesaggio sonoro, mentre noi rimaniamo beatamente inconsapevoli. Per esempio, usando questa apparecchiatura, ho potuto sentire i le macchine bancomat gridare e lamentarsi a blocchi di distanza… le porte dei negozi che si aprono automaticamente, i supermercati, ho potuto sentire i lampioni… abbiamo progettato tutto il nostro mondo costruito nel nostro privilegio, come il centro di questi mondi. Quindi naturalmente sono comodi per noi, ma l’altra vita ne soffre, temo. Così, quando ora vado in una città e comincio a scandire lo spazio delle onde elettromagnetiche, mi rendo conto che parte del suono è umano e parte non è umano – emesso dalle «cose» del nostro mondo costruito.
In Mere Pis: Lisbon hai lavorato sugli elementi residuali di una città, fra cui polvere e vibrazioni tettoniche… Di fatto l’inquinamento acustico è la parte residuale delle attività umane, ciò che rimane come scarto. Più semplicemente hai mai pensato di registrare il negativo di Mere Pis, ovvero lo spazio sonoro ripulito?
Mi piace quest’idea – ma come dici tu, il suono è una specie di residuo. Infatti il suono è il risultato del cambiamento – la stasi è silenziosa, ma il cambiamento «suona». Mere Pis è stato presentato alla terza Triennale di Architettura di Lisbona, ed è stato un altro tentativo da parte mia di esplorare ciò di cui abbiamo parlato – le dimensioni nascoste del nostro ambiente, la nostra atmosfera, volevo rivelare realtà che abitiamo ma che non sentiamo o percepiamo. Piuttosto che usare la radio ho usato strumenti meteorologici, sensori ambientali, ma era lo stesso impulso, mostrare la vitalità dell’invisibile. In realtà il mio titolo Mere Pis è un anagramma della parola Empires perché sono interessato a come le forme, invisibili o meno, plasmano e colonizzano il futuro. E gli Imperi hanno un rapporto travagliato con l’invisibile. La presenza dell’invisibile, lo spettrale, infesta la città, infesta il tempo e infesta l’Impero.
Al di là della rielaborazione estetica, in un’epoca di grande attenzione all’economia circolare, pensi si possa trasformare questi rumori di scarto in energia ulteriormente spendibile? Si potrebbe pensare in termini di economia del futuro? Chissà se esistono progetti che ci hanno provato…
Oh sì, certamente, diventiamo tecnici per un momento – il suono è onde di pressione, come risultato di una forza che agisce sulla stasi, interrompendo la stasi. Quindi sì, lo «spreco» del suono potrebbe essere sfruttato. Per esempio, nei microfoni piezoelettrici è l’azione fisica o meccanica che genera elettricità, e viene sonificata. Si attacca un pickup ad una chitarra di legno e l’azione fisica sullo strumento genera un segnale elettrico che viene inviato all’amplificatore come suono, ma quella piezoelettricità potrebbe essere usata in altri modi, e piccole correnti possono essere «riciclate» dal suono nell’aria. Se ti avvicini abbastanza al pickup della chitarra e gli urli contro, anche le tue onde vocali saranno elettrificate e sonorizzate, anche se con meno chiarezza della forza fisica sullo strumento. Ma mi piacerebbe vedere le onde sonore ambientali del nostro ambiente catturate e immagazzinate per l’uso, è solo energia, dopo tutto.
Il nostro cervello non regge più di 45 minuti di silenzio assoluto. Lo hanno stabilito gli esperti degli Orfield Laboratories, una società statunitense che si occupa di acustica dei luoghi (per esempio, per i teatri). Nella loro camera anecoica che assorbe il 99,99% dei suoni, nessuno è riuscito a resistere più di 45 minuti, disorientato dalla mancanza dei riferimenti sonori che in genere usiamo quando ci muoviamo, e angosciato da rumori quali il gorgoglio del proprio stomaco, il respiro, il battito cardiaco, che normalmente non si percepiscono. Tutti quei microsuoni del concerto 4’33’ di silenzio di John Cage, per intenderci, e le varie onde elettromagnetiche che attraversano la nostra realtà. Con una pratica attraversata dalla relazione e presenza delle onde radio, cosa rappresenta per te il concetto di silenzio assoluto?
Questo mi fa pensare a due cose – la prima è che la scansione del quadrante della radio è, per me, un atto di ricerca e di viaggio… mi aggiro attraverso campi di silenzio, rumore e segnale. Ma il silenzio è una zona necessaria nella ricerca, è più del silenzio, in qualche modo. Per quanto riguarda il silenzio assoluto, penso a un vuoto totale, a una stasi totale, che sembra la morte. L’ho sperimentato una volta a Roma, quando ho visitato le catacombe ebraiche di Vigna Randanini lungo la Via Appia Antica. Ero con un piccolo gruppo che aveva ottenuto un permesso speciale per entrare in questo spazio sotterraneo, uno spazio di morte. A un certo punto eravamo nel profondo delle gallerie e mi sono soffermato un po’ troppo a guardare un bellissimo e misterioso affresco di un pavone, e sono stato lasciato indietro dal gruppo e dalla guida. Uscii dalla camera, nel tunnel, nel buio assoluto e nel silenzio. Sapevo che il gruppo era più avanti, da qualche parte, ma i tunnel si diramavano in diverse direzioni come un labirinto, e un terrore animale mi attraversava. La profondità del complesso sotterraneo, la porosità dei tunnel di terra e mineralizzati che assorbono il suono… la presenza dei morti, era il silenzio totale. Anche se avessi gridato il suono non mi avrebbe aiutato, perché sarebbe stato annientato dal luogo stesso. In realtà – ironia della sorte – nel mio terrore, ero paralizzato sonicamente e non potevo gridare. Beh, oggi sono qui a parlare con voi, quindi alla fine ce l’ho fatta, chiaramente. Ma penso che non cercherò tanto presto il silenzio assoluto… sono innamorato del suono radioso della vitalità.
immagine di cover: Abinadi Meza, ritratto