Oggi, la quinta di otto parti di una riflessione critica di Antonello Tolve che ripercorre il rapporto tra arte, tecnologia e natura nella storia, attraversando una serie di produzioni artistiche rivolte alla relazione tra uomo e ambiente, dalla Land Art alla Transgenetic art e al Bio Activism.
…Dall’urgenza – propria della Land Art e di una considerevole quantità di progetti site (e city) specific – di lavorare en plein air, di misurarsi con le forze della natura e di trasformare il paesaggio con i colpi dell’arte per concepire una critica radicale al mondo dell’industria culturale e del mercato, l’artista torna dunque allo spazio chiuso dello studio-laboratorio e a quello dell’istituzione, (del museo, della galleria, del festival): ma con una solida cintura di sicurezza e con lo scopo di «sollevare il velo su quanto accade all’interno dei laboratori di genetica per interrogarsi sulle tecnologie e imparare a utilizzarle»[1].
La diffusione di informazioni su piattaforme alternative come quella dell’arte o quella della rete (nel caso dei biohacker) è oggi anche il compito di nuove organizzazioni, di correnti di pensiero (che discendono, in parte, dal mondo dei maker) dove uno degli impegni principali è quello di condividere competenze plurivoche (il più delle volte mediante le filosofie dell’hacker-culture e del Do It Yourself), di mostrare gli sviluppi dei nuovi scenari tecnologici e di svelare anche il loro funzionamento[2].
Più affini alle ormai consolidate e storicizzate pratiche della Land Art sono inoltre, nello scenario attuale, le esperienze di alcuni artisti che non modificano apparentemente il paesaggio (e non vogliono farlo in maniera radicale) ma lo vivono allo stato naturale per riscoprirne il potere magnetico. Viaggiatori instancabili, esploratori muniti di bussola e di tutto quanto necessita per instaurare un corpo a corpo con ambienti incontaminati e a volte ostici, gli artisti più strettamente legati a questa ramificazione estetica – ad accompagnare queste pratiche è, in alcuni casi, l’anima ecologica di alcuni festival (Art + Climate = Change 2015), progetti (Artists And Climate Change. Contributions from the artistic community to the vexing problem of climate change) o organizzazioni interventiste depurate da atteggiamenti violenti e incontrollabili (Peoples Climate Arts) – sono spinti dal desiderio di provare esperienze fisicamente coinvolgenti, dal bisogno di instaurare una relazione simbiotica con il paesaggio, dalla nostalgia di conservare il carattere effimero dell’evento, di vivere momenti unici e di documentarli con l’ausilio di qualsiasi mezzo o espressione a disposizione.
Inner Surface (2009), I Road (2011), What Remains (2012), Natural Industry (2012), Sketch Life Books (2012-2013) e The Great Valley Project (2013) di Daniele Girardi[3] seguono, ad esempio, questa inclinazione, questa flessione dai risvolti neoromantici che invita lo spettatore a ripercorrere un catalogo poetico legato all’ecosostenibilità e ad una eticità che vuole prendersi cura del mondo per sentirne gli umori, gli odori, i sapori, le voci lontane che si perdono in una pastosa nostalgia di terra. Con il suo ultimo progetto di exploration/residence organizzata dal norvegese Atelier Austmarka nella vasta foresta di Finnskogen (dal 10 al 26 novembre 2014) Girardi mostra profondamente questa indole ecoturistica, immergendosi totalmente in una natura incontaminata per avviare un esercizio plastico – fatto di immagini, parole, oggetti, materiali minimi – che porta a nuclei espressivi dove il presente diventa continuamente passato, archivio d’una memoria che vuole conservare anancasticamente ogni traccia e ridefinirla, riconfigurarla, ridisegnarla secondo un dettato creativo mai pago di narrare una storia personale e passionale che si riversa naturalmente nel panorama pubblico, nel paesaggio sociale e istituzionale.
I suoi ascoltatori assistono (presenziano), infatti, ad una serie di scambi, ad una serie di passaggi intermedi, ad una performatività postuma offerta attraverso fotografie che fungono da testimonianza d’un percorso, a taccuini di viaggio (in alcuni casi volutamente cancellati, carbonizzati, ridotti a massa illeggibile), a installazioni che assemblano oggetti raccolti durante il cammino, cose catturate dallo sguardo, frammenti memoriali collezionati e catalogati con meticolosità. Il racconto di viaggio ha inizio il 12 novembre 2014, con un primo report in cui l’artista avvisa che intende classificare «l’email per giorni, perciò con data», e, «quando sono reperibili, anche» munite «di coordinate GPS (non c’è molto campo satellitare, ma c’è una luce fantastica per fotografare) […]»[4]. Le coordinate preparatorie, N 60° 5’37.53” / E 12°20’50.64” (A 224m), tracciano, assieme ad una storia degli oggetti debitamente fotografati e classificati, il punto di partenza di un processo che, a dire il vero, ha a che fare con gli inizi e con le fini, con la descrizione delle continuità oscure e con i ritorni, con la consuetudine e con la desuetudine. Il 13 novembre, dopo l’arrivo nella foresta inospitale e selvaggia, ha inizio finalmente, il percorso. «I norvegesi lo chiamano MYR», avverte l’artista in un blog («lo aggiornerò come un diario di esplorazione – foto, video, appunti, sketch, disegni, riflessioni grafiche, cartografie, etc.»)[5] che rappresenta la visual chronicles from Norwegian wilderness, «è un terreno intriso d’acqua dove i piedi sprofondano come in sabbie mobili; un passo sono come cinque, ma non si avanza»[6]se non a stento.
Il primo step di questo itinerario estetico è legato, appunto, ad una serie di importanti manovre creative che trasformano l’arte in vissuto quotidiano, in esplorazione, in esercizio e pratica di resistenza, in connessione con la natura selvaggia e nell’organizzazione di una poetica cartografica che disegna i punti cardinali del percorso. A questi quattro globuli che rappresentano, per Girardi, la «base e l’essenza di tutto il percorso» poiché «il vissuto ha una valenza performativa, in quanto la radice più autentica della poetica si stabilisce nel momento preciso in cui io vivo l’esperienza e in questo caso la mia permanenza nella foresta a contatto diretto con l’ambiente circostante»[7], fa fede un successivo momento legato più strettamente alla documentazione, alla testimonianza di ciò che è stato, alla cronaca visiva che cuce, sotto uno stesso cielo – all’interno di uno stesso – la realtà e la visione, le poetiche cartografiche, le memorie e le biografie dei percorsi. È, questo, un ambiente d’elaborazione in cui l’artista edifica una lenta passerella – che definisce Epica degli oggetti ed archeologia dei materiali – utile a definire le attività, gli spostamenti (indoor e outdoor) delle cose: «A volte utilizzati altre volte sostituiti, i diversi oggetti e manufatti diventano componente fondamentale nell’attività outdoor. Nelle differenti situazioni possono rivelarsi decisivi, come per esempio una bussola o un accendino; l’esito di una semplice azione come orientarsi o riscaldarsi può risolvere un’incognita o determinarne l’insuccesso. Nella loro funzione e/o una volta decontestualizzati in studio mi riportano a considerarli e a valorizzarli per la loro epica. Una volta collocati in una dimensione indoor sono classificati e catalogati, per registrarne l’impiego. Le stesse Moleskine vengono sotterrate (in qualche area remota e geotaggate) e in seguito dissotterrate dal terreno; una pratica comune alla fase di scavo archeologico. Ricongiunti nello spazio, creano una relazione, diventano feticci post-natura di quello che rimane o di ciò che è stato»[8]. Sedimentazione e rielaborazione rappresentano infine la fase conclusiva del cammino, la formalizzazione e l’impaginazione visiva, la eco di un tragitto, la testimonianza di una esperienza. Ma «questa è solo una documentazione», puntualizza l’artista, «il vero lavoro è stare nella foresta selvaggia»[9], nutrirsi di visioni ataviche, di Wilderness.
[1] J. Hauser, L’Art Biotech, cat. della mostra tenuta a Nantes negli spazi della Scène National du Lieu Unique (dal 14/03 al 04/05/2003), Filigranes Éditions, Nantes 2003; trad. it., Art Biotech, con una Presentazione di P. L. Capucci e F. Torriani, CLUEB, Bologna 2003, p. 9.
[2] Per tali questioni si veda almeno il volume di A. Delfanti, Biohacker. Scienza aperta e società dell’informazione, Elèuthera, Mimano 2013.
[3] Riprendo qui parte di un mio intervento scritto in occasione della exploration/residence organizzata dal norvegese Atelier Austmarka (dal 10 al 26 novembre 2013) nella vasta foresta di Finnskogen. A. Tolve, Wilderness (in un paese dove la felicità è sposata al silenzio), in «northwaychronicle.blogspot.com.tr» (blog realizzato dall’artista per documentare i vari step del viaggio).
[4] Da una mail inviata a chi scrive, con in oggetto Daniele_12 nov._first day into the forest, inviata il 12 novembre 2014, ore 18:57.
[5] Da una mail inviata a chi scrive, con in oggetto Daniele_12 nov._first day into the forest, cit.
[6] D. Girardi, Nort_way. smørholmen 1°track_moose and deep water (giovedì 13 novembre 2014), in «northwaychronicle.blogspot.com.tr», linkato il 2 gennaio 2014, ore 00.31.
[7] D. Girardi, North_Way – visual chronicles from wilderness, resoconto (in formato pdf), da una mail a chi scrive, con in oggetto Daniele Girardi: Fasi progetto (scritto), 15 dicembre 2014, ore 17.06.
[8] D. Girardi, North_Way, cit.
[9] Da una mail inviata a chi scrive, con in oggetto Daniele V° report, inviata il 22 novembre 2014, ore 13:30.
Questa è la quinta di otto parti di una riflessione critica di Antonello Tolve che ripercorre il rapporto tra arte, tecnologia e natura nella storia, attraversando una serie di produzioni artistiche rivolte alla relazione tra uomo e ambiente, dalla Land Art alla Transgenetic art e al Bio Activism. Puntate precedenti:Quando la natura diventa arte # 1; Quando la natura diventa arte # 2; Quando la natura diventa arte #3; Quando la natura diventa arte #4
immagini (cover 1) Daniele Girardi , «I ROAD», 2011, Installazione site-specific, ollezione privata (2) Daniele Girardi. «Natural Industry», 2012, intervento site-specific Courtesy dell’artista (3) Daniele Girardi, «What Remains», 2012, video scultura, GAM Palazzo Forti, Verona (4) Daniele Girardi, «Sketch Life Book», 2013, materiali vari, collezione privata (5) Daniele Girardi, «The Great Valley Project», 2013, photo documentation, courtesy dell’artista