Giulio Bensasson: tanto giovane quanto caparbio, e tanto caparbio quanto interessante. La sua ricerca artistica, fondata su dei temi assoluti, si sfaccetta in opere di vario genere, dall’istallazione alla fotografia, alla scultura. Ascoltare Giulio Bensasson significa guardare alla generazione emergente di artisti e significa trovarsi difronte ad una carriera, seppur giovanissima, molto strutturata.
Fabio Giagnacovo: Praticamente tutti i tuoi lavori hanno in qualche modo a che fare con il Tempo. Un tempo inteso come chronos, quantitativo e relativo alla vita umana, che fa scorgere, però, la sua assolutezza, quello che, sempre i greci, definivano aion. Penso, ad esempio, all’archivio fotografico in continua crescita “Non so dove, non so quando”, in cui vecchie fotografie che rappresentavano un istante ben definito del passato, una memoria del tempo, cambiano totalmente il loro senso esistenziale ed essenziale grazie alle coordinate basilari della realtà: lo Spazio (caratterizzato e ben preciso, ad esempio deve essere adatto alla proliferazione di muffe e funghi), e soprattutto il Tempo che si mostra un po’ co-agente dell’opera, un po’ strumento. Che significa svolgere una ricerca artistica così assoluta, su un elemento così puro ed impossibile da dominare?
Giulio Bensasson: Non direi che tutti i miei lavori hanno a che fare con il tempo, direi piuttosto che Tutti i lavori hanno a che fare con il Tempo. Ogni artista (ed ogni essere umano) deve scendere a patti con la durevolezza delle sue opere, sia in termini materiali (e quindi la loro deperibilità negli anni), sia in termini ideali. Se un’idea, un’opera o una poetica sopravvive al suo autore allora abbiamo vinto, altrimenti siamo solo parte della vanità di questo mondo. E così direi che tutta la mia ricerca si basa sull’indagine dei nostri limiti, il tempo è solo uno di questi.
Se si parla di Tempo non si può non parlare di morte. Infatti anch’essa compare spesso nelle tue opere, soprattutto sotto forma di memento mori, tema antico come l’arte stessa. Penso alla mosca sulle superfici stranianti di LOSING CONTROL, simbolo dell’effimero dai tempi delle nature morte barocche o i delicatissimi sudari floreali di Temo che mi sfugga qualcosa, “testimonianza pittorica dell’irreversibilità del tempo”, o ancora THE FUTURE IS BRIGHT, con il suo lento deperimento che ne trasforma il concetto della scritta. Cosa significa lavorare con del materiale deperibile? E quanto questo ha a che fare con la nostra contemporaneità e la nostra vita analogicodigitale in cui tutto è allo stesso tempo effimero ed immortale?
Ogni cosa è “simbolo dell’effimero”: poiché tutto è destinato a finire (o meglio a trasformarsi), tutto è memento mori se lo si guarda da questa prospettiva. Potrebbe sembrare pessimista, ma solo perché abbiamo costruito la nostra cultura sulla negazione della morte. Ne scacciamo l’idea come scacciamo una mosca da una superficie pulita, pur sapendo che la mosca non cessa di esistere se non la vediamo. E così credo dovremmo accettare la finitezza delle nostre vite per poterne apprezzare a pieno la durata. Detto questo, mi rendo conto di quanto sia ironico pronunciare questa frase pur essendo un artista, che per definizione fa di tutto per non essere dimenticato e per sopravvivere nei secoli con il suo operato; ma c’è anche da dire che oggi abbiamo tutti la sensazione di poter vivere per sempre attraverso la nostra presenza online. E’ un tema molto complesso al quale spero di poter aggiungere spunti di riflessione interessanti, anche perché la questione dell’ immortalità non riguarda tanto la permanenza ma la pregnanza di ciò che rimane. E forse è proprio per questo che non importa se il materiale di un’opera sia deperibile o “eterno”, ciò che ha davvero importanza è il contenuto veicolato dal materiale.
I tuoi lavori sono fortemente legati allo spazio fisico, non solo in termini materiali ma anche sostanziali. LOSING CONTROL, ad esempio, con la sua dicotomia sporco/pulito che rimanda ad ossessioni pandemiche, ma non solo, oltre ad essere un’istallazione multisensoriale in cui entrano in gioco praticamente tutti i sensi umani eccetto il gusto, è una condizione esistenziale in cui esisterci, impossibile, quindi, da simulare attraverso le nuove tecnologie. Inoltre la tua è un’istallazione complessa sotto tanti punti di vista, mentre nello spazio digitale non solo si predilige la semplicità ma anche la fruizione immediata. Cosa pensi del rapporto dell’arte con lo spazio digitale e le nuove tecnologie? L’arte, nel XXI secolo, può essere ancora contemplativa?
Credo sia un po’ come interrogarsi sulla legittimità dell’utilizzo della pittura ad olio o della scultura in bronzo nell’arte contemporanea: dal momento che un artista utilizza un mezzo o una tecnica per esprimere un’idea quella diventa legittima, poi ci si può (e ci si deve) interrogare rispetto al proprio gusto e al proprio sentire nei riguardi dell’opera. Ma serve soprattutto un senso critico per analizzarne il contenuto, non essendo la tecnica a legittimare un’opera ma l’insieme di tecnica e contenuto. Che sia realizzata in marmo o in pixel, dunque, poco importa.
Di certo mi auguro che il mio lavoro venga fruito più dal vivo che in digitale, per ovvie ragioni di scelta espressiva. Credo che la superficialità con cui la maggior parte delle persone si avvicina alle opere sia esasperante: spesso ho la sensazione che non ci si soffermi su un’opera più del tempo necessario per averne una visione generica, una sorta di scrolling del reale. Il pubblico attivo si è trasformato in spettatore passivo, e colpire la sua attenzione sembra essere diventata una sfida imperante. Avere un pubblico contemplativo, quando spesso neanche chi scrive di arte si interroga su ciò che vede, appare utopico, eppure ogni sforzo generativo degli artisti è (e deve essere) rivolto ad una comunicazione che passa per la contemplazione. Non credo che rimanere in superficie per facilitare la comprensione dell’opera sia il modo per arrivare meglio al pubblico, e, di conseguenza, lo spazio digitale non può essere l’unico spazio in cui l’opera e il pubblico si incontrano (a meno che non sia stata concepita proprio per quello, si intende).
In un’intervista hai consigliato ai giovani artisti di fare altri lavori prima, non perché l’artista non sia un lavoro, ma perché essi formano sia dal punto di vista umano che tecnico. Citandoti: “Fate altri lavori sia per la forma mentis che per l’esperienza pratica perché può solo aiutare la ricerca artistica”. Mi piacerebbe approfondire. Sono totalmente d’accordo con te, in questi termini, ma mi chiedo: quanto la scelta di fare altri lavori, in molti casi, sia deliberata. Quanto questi altri lavori possano diventare l’unico modo per avere un’entrata economica, pur avendo alle spalle un percorso di studi di almeno 5 anni, una formazione umanista ma anche tecnico-pratica e numerose esperienze di vario genere alle spalle. Quanto possa diventare facile trasformarsi, in modo perenne, da aspirante artista, che ha studiato e si è impegnato come qualunque altro laureato, sacrificandosi anche economicamente, a operaio, muratore, facchino o qualunque altro lavoro slacciato dall’ambito artistico, lavori totalmente fuori squadra ad un percorso intellettuale, solo perché ad un certo punto bisogna pagare l’affitto. Tu che ne pensi?
Partiamo dal presupposto che se si è artisti non c’è un momento in cui si smette di esserlo. Anche stando seduti a riposo o facendo un lavoro di fatica fisica si continua a ragionare in termini creativi. In secondo luogo, come già detto, ogni lavoro e ogni attività, per quanto possa apparire totalmente slegata dall’ambito intellettuale, sarà sempre utile a chi ha fame di creazione. Il linguaggio dell’arte è oggi così ampio da abbracciare ogni aspetto della vita: si può creare un’opera a partire dalle proprie conoscenze di idraulica o di muratura, si può inventare una nuova tecnica a partire dalla commistione di tecniche appartenenti a settori molto distanti dall’arte e tra loro stessi. Non c’è una regola nella ricerca artistica, è questo il bello.
Per quanto riguarda invece la tematica politica del dover fare un secondo mestiere per poter continuare a fare il proprio (o anche solo per sopravvivere), credo ci sarebbe troppo da dire per poterlo condensare in una risposta sintetica, e temo altresì di non avere i mezzi per strutturare qui una valida accusa al sistema in cui siamo immersi. Ad ogni modo mi sento di dire (sperando di non fare apologia del succitato sistema) che fare l’artista è un atto di fede costante: bisogna credere nell’arte e nel suo potere sul mondo ogni giorno, e d’altro canto ci si deve far carico della responsabilità che ne deriva. Nessuna difficoltà e nessuna umiliazione, nessuna stroncatura o nessun riconoscimento potranno cambiare lo spirito di chi vuole davvero provare a cambiare le cose attraverso l’arte. Certo però che la fede e la resilienza degli artisti ( e di molti operatori) non può e non deve essere una scusa per continuare ad umiliare un intero settore. Spero che attraverso la solidarietà tra artisti e la costruzione di una massa critica reale si possa cambiare al più presto questa condizione, fino ad allora dobbiamo continuare a crederci.
Immagini (cover – 1) Giulio Bensasson, Illustrazione di Nikla Cetra (2) Giulio Bensasson, LOSING CONTROL, 2021, installation view, Fondazione Pastificio Cerere (Roma), Ph. Carlo Romano (3) Giulio Bensasson, Non so dove, non so quando, 2016, diapositiva d’archivio #115, light-box, 225x150cm, installation view, Fondazione Pastificio Cerere (Roma), Ph. Carlo Romano (4) Giulio Bensasson, THE FUTURE IS BRIGHT, 2020, Fiori recisi, lamiera traforata, vernice spray (5) Giulio Bensasson, dalla serie Non so dove, non so quando (6) Giulio Bensasson, Illustrazione di Nikla Cetra
Survive the Art Cube è una serie di conversazioni con artisti di diverse generazioni curata da Fabio Giagnacovo. Il titolo riprende il più famoso libro di Brian O’Doherty a volerne ricalcare il piglio critico. Ha il fine di comprendere meglio come questi artisti percepiscono lo spazio analogicodigitale in cui siamo immersi e la nostra contemporaneità, che senso e che importanza ha lo spazio artistico oggi e che senso ha nel nostro presente fare un percorso artistico. I tempi cupi impongono una riflessione sulla realtà e solo gli artisti, forse, possono aprirci la mente:
Interviste precedenti:
Intervista a Eva Hide, Arshake, 28.12.2023
Intervista a Federica Di Carlo, Arshake, 16.12.2023
Intervista Giuseppe Pietroniro, Arshake, 07.12.2023
Intervista a Francesca Cornacchini, Arshake, 14.11.2023
Intervista ad Enrico Pulsoni, Arshake, 09.11.2023
Intervista a Marinella Bettineschi, Arshake, 15.10.2023