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Home News Focus

Intervista | Milica Jankovic

L’ottava intervista della serie SURVIVE THE ART CUBE è con Milica Jankovic, artista montenegrina, ormai anche italiana.

Fabio Giagnacovo by Fabio Giagnacovo
03/02/2024
in Focus, Interview
 Guy Lydster. Hỳbris
Milica Jankovic è artista giovane e spigliata, artista di mondo seppur nell’essenza balcanica. Montenegrina ma ormai anche italiana, le sue installazioni ci spingono sempre di là dalla realtà apparente per farci sprofondare in un inconscio complesso e sfaccettato, a volte cupo, a volte caratterizzato dalle intrusioni dello spazio digitale, a volte in bilico tra l’iconico e la sensazione. Ascoltiamo Milica per ampliare i nostri orizzonti interiori e spaziali, per spostare il parallasse del nostro sguardo nei confronti del sistema artistico, per ravvivarci ad uno sguardo filosofico chiaro e forte.

Fabio Giagnacovo: Lavori spesso sul concetto di spazio e sulla relazione che esso instaura con lo spettatore. L’Altro si relaziona allo spazio, dunque alle tue opere, spesso delle installazioni ambientali, ma anche alla luce, interna ed esterna ai tuo lavori, e quindi, all’ombra, anche in questo caso a volte propria, a volte delle tue opere. Per fare due esempi agli antipodi: l’enorme installazione In the shadow of another we look for our own shadow, in the mirror of another our own mirror (citando Borges) in cui materiale (filo metallico) e immateriale (luce in movimento) trasformano continuamente lo spazio  attraverso l’ombra e trasformano anche il visitatore; e i minuscoli metaMONDI, ambienti in miniatura stranianti che ci raccontano una vita mai vissuta eppure (di)mostrata, dove, come scrivi tu, «la realtà esterna incontra la realtà interiore», in un’ombra fortemente caratterizzante che si fa metafora. Sembra che preferisci le qualità sensoriali dello spazio a quelle fisiche, il luogo come «luogo delle sensazioni» criptico e filosofico. È così?

Milica Jankovic: La tua interpretazione è molto interessante e da questo punto di vista direi che riflette un’attenta analisi del mio percorso artistico. Anche se il mio lavoro è basato sulla relazione tra spazio e  spettatore, penso che questo sia l’effetto collaterale della curiosità che mi ha spinto verso una ricerca relativa allo spazio che abitiamo e l’ambiente circostante e come essi possano influenzare la nostra percezione, offrirci diverse sensazioni ed aprirci verso un’esperienza altra. Inoltre e soprattutto su come si possano creare quei passaggi nei quali il potere evocativo dell’immagine, del suono, dell’odore (mi riferisco a quelli nel loro «stato puro»), che prima si instaurano in noi, per poi rivelarsi al mondo esterno, svelandone la loro piena potenzialità. Nel rispondere alla domanda, aggiungerei che questo spazio è in gran parte legato e riflette lo spazio personale che, in un certo senso, occupiamo (sia mentale che fisico). Penso che questo mutamento continuo tra lo spazio personale e quello dell’altro mi ha portato verso un ulteriore dialogo tra il materiale e l’immateriale delle opere, in un continuo mutamento, tale da lasciare allo spettatore un’apertura verso mondi altri.

Questo processo trasforma non solo lo spazio stesso (inteso come opera) ma anche quello del visitatore, che diventa parte integrante dell’opera, sperimentando una relazione diretta con l’ambiente che lo circonda. In questo modo l’opera esiste proprio attraverso il visitatore, o per meglio dire, grazie al quale si completa.

Questo, come già hai notato, si riferisce sia agli ambienti in miniatura che ai lavori in grande scala, ma in fondo, ciò che mi interessa di più è il sentimento che si instaura tra spettatore e opera. Penso sia importante dare all’altro la possibilità di completare l’opera, di diventarne parte integrante. È un’«operazione» imprevedibile – in cui non si puoi anticipare come l’opera verrà interpretata, vissuta e a cosa porterà e ne trarrà lo spettatore. Ma in sostanza, ritornando sempre sullo stesso discorso capisci che, in realtà, il percepire e il vivere l’altro (l’opera o/e lo spazio) dipende sempre da noi stessi.

Quindi, sì, si potrebbe dire che mi interessa esplorare il luogo come «luogo delle sensazioni» e creare esperienze attraverso il mio lavoro artistico. In conclusione, cerco di incoraggiare una profonda connessione emotiva e intellettuale tra lo spettatore e l’ambiente creato.

In tutte le tue opere si riconosce l’obbiettivo di andare in fondo alle cose, scorgerne l’essenza, non facendosi mai, ad esempio, persuadere dalla sensualità dell’icona. Inoltre utilizzi spesso le nuove tecnologie sperimentando le loro qualità estetiche (l’immaterialità digitale ha molte caratteristiche in comune con il nostro inconscio) ma anche utilizzandole come strumento funzionale (pennello della contemporaneità). Come, queste nuove tecnologie, ti aiutano nel tuo processo artistico? E quanto c’è di utopico nel raggiungere l’essenza delle cose?

Anche se le nuove tecnologie svolgono un ruolo significativo nel mio processo artistico, in particolare negli ultimi anni, le guardo come mezzi attraverso i quali posso affrontare ed esplorare il mondo in modi che altrimenti sarebbero inaccessibili. Forse, in questo caso sarebbe da dire, dei modi (ma anche mondi) illeggibili, che le nuove tecnologie permettono di rilevare. Direi che le sperimentazioni spaziali che permettono questi mezzi mi aiutano a creare i luoghi dove prenderanno forma, in modo anche tangibile, delle future esperienze. Non è facile lavorare con questi mezzi perché necessitano di una conoscenza dei linguaggi, ma soprattutto una consapevolezza e una capacità critica nei loro confronti visto che, come qualsiasi nuovo mezzo, hanno la capacità di sedurci facilmente. Bisogna, quindi, essere guardinghi per non cadere nella trappola e a non lasciarsi stregare dal fascino dell’attualità e delle mode. E ora possiamo alla seconda parte della tua domanda.

Nel momento in cui il ricercare o l’andare verso l’essenza delle cose, c’è sempre un elemento di sfida e forse di utopia. Raggiungere l’essenza di un concetto o di un’esperienza è un obbiettivo ambizioso e forse inafferrabile ma è proprio la ricerca di questa essenza che alimenta la mia pratica artistica e il mio essere. Tuttavia, anche se, l’essenza stessa può rimanere inafferrabile, il percorso verso la sua ricerca è profondamente significativo.

Tu sei nata in Montenegro, ma fatico a pensarti esclusivamente montenegrina, in quanto viaggi continuamente tra i paesi europei e non solo, svolgendo anche diverse residenze d’artista. Allo stesso tempo, però, fatico a non pensarti montenegrina, nel senso che in te permane un genius loci fortemente caratterizzante. Cosa significa, per un artista, viaggiare? Quanto sono importanti le residenze? Scrivi sul tuo statement: «Sono nata a Cetinje, che si può definire più come un luogo di passaggio che una città. Le montagne che l’hanno definita, inconsciamente hanno plasmato anche il mio pensiero». In che modo quelle montagne hanno plasmato il tuo pensiero, e quindi sono entrate in qualche modo anche nel tuo processo artistico?

Dopo quasi dieci anni passati all’estero, fatico anch’io a pensarmi esclusivamente montenegrina, ma importanti accadimenti mi hanno formata lì e, grazie ai quali, sono felice di esserlo. Credo che sia proprio questa folle smania di andare sempre altrove che mi ha spinto in un movimento continuo. In tutti questi anni, fitti di mostre, residenze in Europa in Cina e anche negli Stati Uniti ma, a distanza di tempo, credo che l’Italia sia stata il luogo più importante per la mia crescita personale e professionale. Probabilmente perché proprio in Italia che mi sono resa conto dell’importanza del genius loci di cui parli, che mi ha fatto percepire quanto la forma delle montagne di Cetinje e questo bisogno metaforico di scavalcarle, e vedere oltre, mi ha spinto verso quello che sono oggi.

Da un lato è stata una grande fortuna (anche se non so è stato solo questo) poter vivere tutte le esperienze intrinseche ad ogni viaggio. Di sicuro hanno avuto un impatto significativo e credo che non sono qualcosa della quale si possa raccontare. Le esperienze ti chiedono solo di essere vissute a tutto tondo. L’opportunità di esplorare nuovi ambienti, culture, storie e prospettive ha arricchito il mio bagaglio culturale e intellettuale, contribuendo a una maggiore apertura mentale e alla capacità di vedere il mondo da diverse angolazioni (che bello pensare e sognare in lingue diverse!). Soprattutto l’anno in corso è stato significativo per la mia crescita professionale, ma aggiungerei che in questo processo è fondamentale compiere delle scelte, altrimenti c’è il rischio di perderci tra le mille possibilità alle quali inconsapevolmente, spesso e volentieri, ci si adatta. Per questo le residenze che scelgo sono mirate soprattutto alla mia crescita professionale e legate alle progettazioni e realizzazioni delle opere future.

Hai aperto da qualche anno un’associazione culturale in Montenegro, che ha come fine di quello di creare un dialogo proficuo tra giovani artisti internazionali e montenegrini: Atelie 22. L’associazione, come si può leggere sul sito, ha svolto diversi workshop, call for artists, residenze, eccetera. Ci racconti gioie e dolori di questa scelta? Quali sono state le più belle soddisfazioni e quali, se ci sono state, le più cocenti delusioni?

MJ: Atelie 22 esiste dal 2020 e da quest’anno abbiamo anche una casa editrice, che porta lo stesso nome. Non è stato facile sviluppare un progetto sull’associazione culturale, ma tale è stato il desiderio di approfondire e sviluppare le mie esperienze all’estero che mi hanno indotto a fare questa scelta. Sentivo il bisogno di dare il mio contributo, non solo come artista, ma creando un ecosistema che potesse offrire nuove possibilità educative ed espositive.

La sfida più grande è stata curare il festival di arte multimediale Re/Shaping The City. Era il primo anno di pandemia (2020) e l’idea del Festival era nata nel momento in cui gallerie e musei sono stati chiusi al pubblico. In quel momento mi sono trovata davanti ai 1200 metri quadri di spazio pubblico, con 20 artisti provenienti da tutta Europa e dal Montenegro e una marea di problemi legati alla preparazione dell’esposizione, alla cura e all’installazione delle opere per un ampio arco di tempo. L’idea portante del festival era quella di invitare diversi artisti in grado di interagire con lo spazio pubblico, creando installazioni site-specific.

La cosa più bella di quel periodo è stata il mutuo scambio tra gli artisti esteri e quelli montenegrini. Questo dialogo culturale e creativo è stato incredibilmente gratificante ed è stato per tutti il modo di ampliare i propri orizzonti artistici. L’organizzazione è stata stressante ma, nello stesso tempo, estremamente appagante. La mia fortuna è che non ho mai la percezione della fatica del fare, organizzare e realizzare progetti, perché altrimenti non avrei fatto nulla!

Sono convinta che, nel nostro piccolo, stiamo contribuendo alla crescita della scena artistica e alla sensibilizzazione del pubblico, sia attraverso il festival ma anche con le pubblicazioni e le traduzioni di libri di arte contemporanea. Ovviamente gestire entrambe questi ambiti richiede risorse finanziarie e una continua ricerca dei finanziamenti. Nonostante il rapporto con burocrazia e la gestione finanziaria sia complesso, fino ad oggi siamo riusciti ad ottenere il sostegno del Ministero Culturale del Montenegro e di numerose Fondazioni Europee, che ci hanno permesso di portare avanti progetti molto ampi. Le sfide sempre presenti, di fatto, fanno parte integrante dell’esperienza e ti offrono l’opportunità di crescere e migliorare nel tempo.

Hai svolto un percorso di formazione artistica in Montenegro e poi in Italia e hai conosciuto diversi ambienti artistici in giro per il mondo. Quali sono, secondo te, le criticità italiane in quest’ambito, in relazione agli altri Stati? Quando un professionista si laurea in un’università trova un lavoro, magari svolge dei corsi di formazione che accentuano le sue capacità e progredisce professionalmente ed economicamente durante la sua vita, perché, secondo te, in ambito artistico, ci si trova davanti solo a lavori non retribuiti e stage ridicoli ai limiti dello sfruttamento?

La valorizzazione del lavoro artistico è essenziale e, per questo, credo che sia fondamentale promuovere politiche e iniziative che riconoscano adeguatamente il contributo degli artisti alla società.

Di sicuro viviamo in una società, quella europea, dove ci è imposto (in primis) che la cultura dovrebbe essere qualcosa di non monetizzabile: «fare» l’artista dovrebbe essere una questione di talento che con sé porta dedizione e passione, anziché concentrarsi sul guadagno. Al contrario, negli Stati Uniti, la cultura è sostanzialmente guadagno, ragione per cui deve risponde esclusivamente alle logiche del mercato. Entrambe le realtà hanno i loro vantaggi e i loro pregi, ma anche difetti e storture.

La problematica degli stage sottopagati si inserisce in questo contesto, coinvolgendo diverse discipline artistiche e umanistiche. Il problema si acuisce poiché gli artisti spesso faticano a trovare una collocazione vera e propria nella società contemporanea, un problema che purtroppo non si limita all’Italia. La necessità di rafforzare i legami tra il mondo artistico e il settore lavorativo o di mercato rappresenta una concreta sfida che deve coinvolgere tutti i paesi.

In un’epoca in cui i rapidi cambiamenti sono alimentati dalle ‘nuove’ tecnologie, è evidente che ciò richiederà un cambio di prospettiva. Quello che posso affermare, per la mia personale esperienza, è che tutto ciò richiederà un nuovo modo di approcciare l’arte e il mercato stesso.  Un fenomeno che, piano piano, sta prendendo forma.

Oggigiorno più che mai ritengo che in questo fenomeno, la comunità artistica rivesta un ruolo cruciale. In particolare, attribuisco grande importanza a quegli artisti che integrano la loro sperimentazione, in collaborazione con altre settori disciplinari per dirigere il loro prodotto in ambiti diversi, senza limitarsi ad una oggettivizzazione estetica dei ‘nuovi’ mezzi.

Non occorre essere profeti per capire che l’evoluzione è inevitabile, soprattutto perché tantissimi artisti sono rimasti ai margini di un sistema legato solo alle dinamiche mercantili che privilegiano e enfatizzano l’oggetto estetico.  Di certo se vogliamo cambiare qualcosa dobbiamo partire da noi stessi, ma è incoraggiante notare che l’Europa, con i suoi progetti, offre alcune opportunità per affrontare questo contesto in cambiamento, a differenza di altre realtà da me conosciute.

Immagini (cover – 1) Milica Jankovic, Illustrazione di Nikla Cetra (2) Milica Jankovic, «In the shadow of another we look for our own shadow, in the mirror of another our own mirror»; installazione di sculture in filo metallico su larga scala con movimenti luminosi ripetitivi; dimensioni variabili; mostra personale curata da Ljiljana Karadžić presso Galerija Art, Podgorica, Montenegro (2022) (3) Milica Jankovic, «metaMONDI», diorama in scatole di cartone con sistema di illuminazione interna; sculture/oggetti in miniatura – dimensioni variabili; mostra personale nella galleria GABAYoung, Macerata, Italia, curata da Giulia Perugini (2019) (4) Milica Jankovic, «metaMONDI», diorama in scatole di cartone con sistema di illuminazione interna; sculture/oggetti in miniatura – dimensioni variabili; mostra personale nella galleria GABAYoung, Macerata, Italia, curata da Giulia Perugini (2019) (5) Milica Jankovic, «Take Me Back Home», (dettaglio); installazione site-specific con Realtà Aumentata; installazione pubblica realizzata in collaborazione con il software engineer Martynas Januškauskas (LT) – Re/Shaping the City festival, Cetinje, Montenegro (2021). (6) Milica Jankovic, «Inherited Memory»; 3 frames della video installazione progettata sul mirror glass folia, premio YVAA – Young Visual Artist Award (“Milčik”), ISU, Montenegro (2022). (7) Milica Jankovic, Illustrazione di Nikla Cetra

Survive the Art Cube è una serie di conversazioni con artisti di diverse generazioni curata da Fabio Giagnacovo. Il titolo riprende il più famoso libro di Brian O’Doherty a volerne ricalcare il piglio critico. Ha il fine di comprendere meglio come questi artisti percepiscono lo spazio analogicodigitale in cui siamo immersi e la nostra contemporaneità, che senso e che importanza ha lo spazio artistico oggi e che senso ha nel nostro presente fare un percorso artistico. I tempi cupi impongono una riflessione sulla realtà e solo gli artisti, forse, possono aprirci la mente:
Interviste precedenti:
Intervista a Giulio Bensasson, Arshake, 18.02.2024
Intervista a Eva Hide, Arshake, 28.12.2023
Intervista a Federica Di Carlo, Arshake, 16.12.2023
Intervista Giuseppe Pietroniro, Arshake, 07.12.2023
Intervista a Francesca Cornacchini, Arshake, 14.11.2023
Intervista ad Enrico Pulsoni, Arshake, 09.11.2023
Intervista a Marinella Bettineschi, Arshake, 15.10.2023

 

 

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