Oggi, l’ultima di otto parti di una riflessione critica di Antonello Tolve che ripercorre il rapporto tra arte, tecnologia e natura nella storia, attraversando una serie di produzioni artistiche rivolte alla relazione tra uomo e ambiente, dalla Land Art alla Transgenetic art e al Bio Activism.
La creazione prolifica di aree verdi nei centri urbani destinate a prato fiorito – si pensi alle varie piantagioni biorococò che popolano le arterie autostradali di Istanbul – o le sezioni di verde pensile dietro ai cartelloni pubblicitari stradali (che nascono in molti casi per ridurre le emissioni di carbonio), portano oggi a nuove consapevolezze, a nuove misure di sicurezza e a nuovi fenomeni estetici che non solo forgiano «il trend dei giardini verticali […]» o il modello dei «giardini clandestini che, secondo lo slogan Libera il giardiniere che è in te del movimento americano Guerrilla Gardening, nascono con lo scopo di abbellire il mondo attraverso una sorta di riforestazione urbana»[1], ma avanzano anche, messa da parte la moda nel generale green thinking – che ha «diffuso capillarmente l’idea dei community gardens, jardins partagés» e degli «orti urbani in una tendenza per certi versiradical-chic»[2]– significative esperienze con risultati estetichecologici che lasciano sperare. Spinti da una stessa coscienza squisitamente ecologica sono anche alcuni lavori di artisti come Ettore Favini che propone, nell’ambito della seconda edizione del Premio Artegiovane (2006), presso la Cascina Falchera (Centro per l’Educazione all’Agricoltura di Torino), Verdecuratoda, un giardino con alberi da frutta piemontesi, o l’amorevole azione di Bianco-Valente che nel 2011, a Voltaggio (paesino in provincia di Alessandria), all’interno del progetto Senso orario curato da Valentina Tanni, piantano in collaborazione con i cittadini un alberello di gelso, quasi a generare un’azione collettiva, a concepire una festa, a ricordare che prendersi cura della natura vol dire prendersi cura dei luoghi e di chi li abita.
Vari progetti, da un versante più gustosamente concettuale che allude ai pericoli di una situazione e si pone come intervento d’urgenza per sensibilizzare il pubblico e invitarlo a riflettere su problemi comuni, affermano, sulla piattaforma dell’arte, il desiderio di spostare il tiro da un’azione reale ad una immaginifica che allarga il perimetro ai versanti delle aree politica, economica o sociale e invita lo spettatore a osservare il proprio habitat con una coscienza paraecologica, azionata dall’idea, dal significato, dal senso dell’opera.
Partendo da un telo bianco-panna di 2,17×11 metri – il tipico telo di cotone utilizzato per la sepoltura – ripiegato e stirato con cura, Devrim Kadirbeyoğlu propone ad esempio, con Shroud 2,17x11m (2014), questioni che riguardano il verde pubblico e l’ecologia per ricordare i fatti del Gezi Parkı (a piazza Taksim, nel distretto Beyoğlu), unico spazio verde del centro cittadino a rischio demolizione per la costruzione di un nuovo grande centro commerciale. Shroud 2,17x11m è infatti simbolo di carità, di conoscenza e di preghiera, attraverso il quale l’artista richiama alla memoria il sudario – un sudario utile ad avvolgere il verde, ad avvolgere un albero ferito dalla matta bestialità della speculazione edilizia – per fasciare, bendare, sanare, medicare un dolore inconsolabile[3]. Anche con Here and Nowhere (2013) l’artista avvia una simile riflessione per disegnare un paesaggio che si sviluppa secondo coordinate legate a fattori ambientali e socioculturali.
Nato dalla lettura del romanzo Saatleri Ayarlama Enstitüsü (1961) di Ahmet Hamdi Tanpınar, Here and Nowhere è un’installazione che trasforma lo spazio in opera d’arte integrale e spinge lo spettatore all’interno di una riflessione che fa i conti con il tempo della vita quotidiana segnata dai fenomeni interattivi, con il nomadismo a cui è costretto l’uomo contemporaneo, con l’importanza di avere una casa, un ambiente in cui rifugiarsi. Partendo dalla figura di una lumaca – peregrina solitaria senza fissa dimora che porta con sé la propria abitazione – la cui scia simboleggia un viaggio naturale contrapposto a quello artificiale dell’umanità, Devrim Kadirbeyoğlu riflette con ironia su un mondo controllato dai nuovi meccanismi economici che accorciano e accartocciano la temporospazialità e portano l’individuo in uno scenario sempre più picnolessico e ubiquo. Ad accompagnare l’installazione l’artista concepisce, inoltre, un workshop per fare dell’educazione un’installazione foniconica e dar vita, così, ad un corpo espositivo plurale che non solo presenta a altezza bambino tutti i disegni realizzati in classe, ma – mediante una traccia sonora, fedele registrazione del tempo passato in classe – adotta anche lo spazio come ingrediente plastico e praticabile che rende libero lo spettatore e trasforma la scultura in una attività umana[4].
Nato sotto la stella maestra dell’ecosostenibilità e di un discorso che fa il verso al modello biologico, Cuprum (2012), installazione sonora di Daniela Di Maro, presenta un programma che coniuga rappresentazione e conduzione d’energia attraverso cinque ricami (fil-di-rame su carta) raffiguranti piante farmaceutiche e una serie di apparecchi tecnologici (pannelli solari, microcircuiti e diffusori sonori) che trasformano lo spazio mediante l’emissione di suoni naturali. Cuprum (nome dato da Plinio al rame per il suo legame con l’isola di Cipro) è, nel disegno dell’artista, un luogo fragile, uno sguardo ottimistico sulle risorse ambientali, un percorso plurisensoriale che invita lo spettatore in una serie di mondi magici dove natura fa rima con prendersi cura.
Da un’angolazione più analitica, anche Domenico Antonio Mancini, con il suo Avviso ai naviganti (2013-2014) offre, assieme al progetto Protocol (2014-2015), una riflessione su alcune irrisolte piaghe del presente. Se da una parte con Avviso ai naviganti l’artista propone una visione estetica «sul Mediterraneo e sui flussi migratori verso l’Europa, una mappatura di tutte le coste mediterranee con l’aggiunta dei dati relativi agli incidenti dei migranti riportati nelle aree rappresentate, dalle coste della Turchia fino alle isole Canarie che pur essendo fuori dal Mediterraneo sono sempre state una delle porte dell’Europa»[5], dall’altra, con Protocol, spinge lo sguardo verso gli abissi per concentrare l’attenzione sulle navi a perdere che trasformano lo splendore del Mediterraneo in una discarica incontrollata. Il lavoro muove infatti, dalla Convenzione di Londra del 1972 sulla prevenzione dell’inquinamento marino causato dallo scarico di rifiuti ed altre materie (definito dumping) per tracciare un prospetto inquietante «sulle navi che tra gli anni ottanta e novanta» del Novecento «sono affondate, spesso dolosamente, con carichi a volte sconosciuti, a volte dichiaratamente tossici, sui fondali più profondi del Mediterraneo»[6].
Anche il lavoro di Marco Maria Giuseppe Scifo segue un’articolazione riflessiva che costruisce metafore spigolose e disarmanti, scenari che mostrano un mondo depredato, distrutto, saccheggiato o semplicemente ignorato dall’umanità. Come Di Maro, Kadirbeyoğlu e Mancini, Scifo propone un atteggiamento analitico più riservato, aperto a contrade meditative che toccano note e scale visive volte a smontare la quotidianità per costruire un abbecedario in cui i vari disastri ecologici, l’inquinamento luminoso e acustico, lo scioglimento dei ghiacciai, i diserbanti che avvelenano le praterie, i gas e le polveri sottili che inquinano l’etere, la cementificazione e la deforestazione, l’assenza di un controllo o quantomeno di un’etica collettiva diventano temi irrinunciabili, luoghi da cui partire per edificare progetti – Peace (2005), 8 sec b-n (2005), Apicoltura (2006-2009) e ex-térieur-in (2009-2010) ne sono alcuni – che non propongono rimedi, antidoti o eventuali terapie, piuttosto raccontano storie e si pongono come ramificazioni riflessive che assediano la mente dello spettatore e lo invitano a concepire nuove idee, nuove posizioni.
Per gli artisti che lavorano da una latitudine più metonimica e metaforica, il tentativo di sottintendere tematiche, di approfondire ricerche e raccontarle con idee che enunciano (ma non denunciano), si appella al pensiero del pubblico e dello spettatore, non per attenderne un giudizio critico, bensì – come rileva Paolo Bellini – «una fruizione a sua volta capace di dar vita a nuove situazioni»[7]. Per questi artisti è essenziale tracciare un percorso alternativo, mortificare le ripetizioni aride del quotidiano e pungere lo sguardo dello spettatore con lo spillo della creatività, di una atmosfera che condanna la sterile malizia, che spinge oltre i bordi della seduzione vuota e frivola, oltre ogni conciliazione o legittimazione con lo stato delle cose. L’arte, per loro, deve rispondere, infatti, a una esigenza che spazza via il disegno di una umanità totalmente condizionata e pianificata dalle oscenità della commercializzazione e asseconda, mediante una felice poliglottìa estetica, il sogno di un risveglio costruttivo, portando l’uomo dietro il paesaggio consueto, oltre la mera apparenza, verso il recupero della propria coscienza, della propria individualità e della propria dimensione umana.
[1] C. Cravero, La cultura verde. Una pratica da coltivare, in A. Tolve, E. Viola, a cura di, Malessere dell’arte e interventi d’urgenza, «Quaderni d’Altri Tempi», a. VIII, n. 36 (monografico), 2012 – (quadernidaltritempi.eu).
[2] C. Cravero, La cultura verde, cit.
[3] Riprendo qui, in parte, la riflessione dedicata a Stay with me, il progetto organizzato da Selda Asal negli spazi dell’Apartment Project Berlin (dal 10/11 al 24/12/2014). Cfr. A. Tolve, «We have to start somewhere…», in «Arshake», 03 dicembre 2015, linkato il 26/08/2015, ore 10:42.
[4] A. Tolve, Devrim Kadirbeyoğlu, in «Alfabeta2», 12 agosto 2015, linkato il 26/12/2015, ore 11:14.
[5] D. A. Mancini, Avviso ai naviganti 2013-2014, in Domenico Antonio Mancini portfolio + curriculum (pdf), s. p., da una mail inviata a chi scrive da una mail a chi scrive, con in oggetto portfolio, 03 agosto 2015, ore 17.51.
[6] D. A. Mancini, Protocol 2014-2015, in Domenico Antonio Mancini, cit., s.p.
[7] P. Bellini, Estetica e comportamento. Saggio sulla società dell’uguale, Vita e Pensiero, Milano 1976, p. 72.